Una mostra da cui si può venire inghiottiti e posseduti per il fascino delle immagini. Ma anche una mostra che offre «di ritorno» una lucidità perfino sorprendente, se non anche problematica. La mostra è quella che al Madre di Napoli (da pochi giorni e fino al prossimo 3 settembre), racconta più di quarant’anni di lavoro artistico di Mario Martone. Dal 1977 a oggi, 2018. Un percorso intrapreso dall’artista ancora studente ma già «teatrante» in un buon liceo di Napoli (nonché curioso performer in grande confidenza e osmosi con le più avanzate pattuglie visive), e poi gradualmente espanso ad altri linguaggi e altra consapevolezza.

La storia  artistica di Mario Martone riguarda insomma tutti, ed è occasione rara di ripercorrere con lui diverse stagioni culturali del nostro paese, che molto rapidamente (talvolta in maniera quasi «clandestina» altre volte con vere esplosioni di performance e di gusto) si sono succedute vorticosamente, ma sempre con un pensiero che le guidava, sempre con una soglia critica che le vagliava e le elaborava dentro le trasformazioni anche epocali che si sono succedute in questo passaggio di secolo. Senza parole altisonanti né professioni «sapienziali», il lavoro quotidiano di un artista lungo gli anni può così essere specchio e filo conduttore di un’attività tenace e resistente che non rifiuta mai il presente, ma non si accontenta di sottostargli passivamente.

La mostra del Madre,curata da Gianluca Riccio, documenta tutto questo, in un mix di visioni e tecnologia molto coinvolgente per il visitatore. Perché l’ingresso nella grande hall dell’istituzione artistica della regione Campania, porta subito a un confronto significativo: una parete fotografica con la natura incontaminata del Cilento, davanti alla quale si stende una teoria di anfore affondate nella terra: è l’omaggio allusivo al film che Martone sta completando per l’uscita di settembre: Capri-batterie è il titolo, ripreso da un’opera di Beuys per il gallerista Lucio Amelio. In quel rapporto tra ricerca delle avanguardie e film futuro, sta già il senso di tutta l’opera di Martone.

Che si può scorrere, quasi alla lettera, andando a sedersi sulle sedie girevoli della esposizione vera e propria. Come in un mitico spettacolo del 1986 che era omaggio al film d’azione e a Godard, Ritorno ad Alphaville, è la scena a contenere gli spettatori, e ognuno di questi ruotando la propria seduta potrà dirigere sguardo e attenzione a un diverso oggetto. Qui gli schermi sono quattro, per un totale di materiale montato di più di nove ore. Il sonoro si ascolta in cuffia, che con un facile sistema identificativo basato sui colori, permette di spostare l’ascolto da uno schermo all’altro. Chi solo saltuariamente ha assistito a spettacoli o film di Martone, qui ha la possibilità di fare grandi e belle scoperte. Perché fin dall’inizio la cura, l’attenzione e la significanza di ogni più piccolo particolare, e il senso complessivo di ogni titolo, e il rapporto stretto e organico tra un’opera e un’altra, qui si possono «vedere» letteralmente a occhio nudo.

Ancora più ricco ovviamente, per chi quel percorso ha seguito più intensamente, è il bottino di emozioni, ricordi, intersezioni e interferenze che subito si accumula. Già dopo le prime prove, da subito dense e puntute, all’indomani del terremoto del 1980 che dopo il dolore e le macerie portò a Napoli le energie per reagire e ripartire (almeno artisticamente), Tango glaciale risuona come uno shock. Nella sua piacevolezza sinuosa e ritmata, taglia a suon di cesoie non solo il passato, ma anche tutte le illusioni che ci saremmo poi bevuti nei fatidici anni 80.

L’occhio di Martone è già allora molto attento e inventivo: uno spettacolo brechtiano come Coltelli nel cuore non sembra realizzato in un teatrino di campagna delle Marche, come fu, ma girato in quella Hollywood tra i 30 e i 40 in cui il vecchio Bertolt si aggirava, esule, comunista, ma anche un po’ musicarello. E non mancano le sorprese assolute, come un inedito Giorgio Barberio Corsetti che si sdoppia con Andrea Renzi in un clamoroso Don Giovanni ambientato al porto… Nel subbuglio emotivo e ammirato che tante immagini inevitabilmente portano, risulta netta però l’organicità del lavoro di Martone.

Che si è tramutata nella necessità, graduale ma sempre più forte, di allargare ad altri linguaggi, ad altri tessuti di relazioni e di organizzazione del lavoro quella esperienza che (senza nessuna spocchia) è diventata sapienza, dal teatro al cinema, all’opera lirica, alla direzione di teatri pubblici. Una storia abbastanza straordinaria, ma assolutamente coerente, che tutte quelle immagini che sembrano sommergere il visitatore al Madre, ci garantiscono possa darci ancora delle sorprese. Chi avrebbe mai potuto ritenere plausibile oggi La cena delle beffe, solo per fare un esempio, prima di vederla alla Scala divampare nella Little Italy della Bowery con momenti anche sublimi? O che certi scrittori potessero germinare sapienza ed emozioni, tattili e visibili, fuori delle loro pagine, da Anna Banti a Fabrizia Ramondino, da Parise a Leopardi.

La mostra del Madre dà, oltre al piacere della visione, anche molte risposte, e qualche speranza. Dopo la scomparsa dei maestri della regia critica, il lavoro di Martone su ogni tipo di scena è tra i pochi a dare garanzie: di essere un attendibile occhio di questo paese,. Lucido e vigile, eppure affettuoso.