Nel 1975, dopo una guerra coloniale durata tredici anni, l’Angola ottenne l’indipendenza dal Portogallo; ma il conflitto civile che ne seguì fu, se possibile, ancora più tragico e sicuramente più lungo: finì, infatti, solo nel 2002, contando 500.000 morti e 1 milione circa di sfollati. Continuamente rinfocolata dagli ex movimenti indipendentisti in lotta per la supremazia, la guerra non era ancora finita quando António Lobo Antunes scrisse Lo splendore del Portogallo (riedito ora da Feltrinelli, nella bellissima traduzione di Rita Desti, pp. 416, euro 32,00).
Era il 1997, e la pressione di una contingenza così drammatica fece sì che la Storia non si limitasse a favorire lo sfondo delle vicende narrate; in qualche modo vi partecipò e le diresse determinandone il tono, e i bassi della disperazione.

A venire raccontata, in prima persona, è la vicenda della caduta di una famiglia di coloni, angolani di ascendenza portoghese, arricchitisi grazie alle piantagioni di riso e girasole e destinati a perdere tutto perché travolti dalla guerra civile. Nel 1977, Isilda, erede della fazenda appartenuta ai genitori – membri di quell’alta borghesia nata a imitazione dell’europea, stessi tic e suppellettili – spedisce i tre figli, Carlos con sua moglie Lena (la mussequeira, bianca delle baraccopoli), Rui e Clarisse, fuori dall’Africa, via dalla guerra, in un Portogallo insulso che non è la patria di nessuno. E resta, vedova e sola, a difendere la piantagione; sforzo inutile, un inutile inchiodarsi a un paese che ci si era illusi di comandare e di cui da sempre si era solo ospiti: «perché noi l’Angola non la comprendiamo, non comprendiamo la terra, la varietà di odori, l’alternanza di aridità e pioggia, di sottomissione e furia, di indolenza e violenza».

Questo sradicamento teatralizzato dalla guerra che sottrae ruolo ai coloni, dimostrandoli non solo stranieri in terra straniera, ma strani in terra strana, era già alla radice dei rapporti fra i protagonisti, separati gli uni dagli altri anche in tempo di pace. Incomunicabilità pregressa che colpisce con ferocia soprattutto i tre ragazzi: Carlos perché si scopre mulatto, in una società apertamente razzista; Rui, epilettico, quindi «difettato» anche lui, che ha il gusto di impallinare bestie e inservienti, chiuso in un suo mondo neanche triste di crudeltà gratuite e cartoni animati. E la bella Clarisse, che cresciuta, troppo scollata e troppo truccata, venderà la sua bellezza a chi può garantirle un conto in banca e un appartamento a Lisbona.

Diviso in tre parti, il romanzo alterna le voci di Carlos, poi di Rui e infine di Clarisse, ormai in Portogallo, mentre la madre rimasta, in Angola, racconta la propria fuga dalla fazenda in compagnia delle domestiche Josélia e Maria da Boa Morte, cui finirà per assomigliare in tutto, anche negli abiti, e con cui condividerà la sorte fino in fondo.
Dai monologhi-fiume di Isilda, persa la punteggiatura, persi i nessi logici, a imitazione di chi fugge a testa bassa nell’intrico dei rami e li spezza, si esce, come in una radura, nel racconto più pulito e lineare di Carlos, Rui e Clarisse, i quali spiegano dal proprio punto di vista quando si è aperta la voragine ed è iniziata la caduta. Una caduta che, come il pozzo di Alice, dà «tutto il tempo, precipitando, di guardarsi intorno», salvando gesti e oggetti di un passato che si combina con l’alienazione del presente.

Le gocce per la pressione che l’anziana Eunice, madre di Isilda, versava nel bicchiere, mentre l’intera famiglia sospendeva le proprie attività per contarle mentalmente. Il fermacarte di vetro che, agitato, faceva turbinare la neve intorno a un Babbo Natale in trappola, così poco credibile nel paese dei trentotto gradi all’ombra. O il vezzoso cappellino di Isilda, chiave d’accesso a un mondo dove alle donne non si chiedeva che di indossare vezzosi cappellini, e replicare l’esistenza dei propri avi, gelosamente portoghesi, quell’immobilità apparente garantita dallo sfruttamento e dalla violenza, dove sopraffazione e tè pomeridiani, ladri neri impiccati ai manghi e battute di caccia all’antilope avrebbero dovuto, non fosse stata la Storia, bilanciarsi per sempre, perché «ciò che eravamo venuti a cercare in Africa non era denaro né potere ma negri senza denaro e senza nessun potere che ci dessero l’illusione del denaro e del potere».