Il vocabolario della politica è nutrito di promesse, in ogni parte del globo. Quando Francesca Zoe Paterniani (Pesaro 1991) giunge ad Amman (Giordania), il 1 settembre 2016 per la residenza di due mesi a Darat al Funun (in arabo significa casa per le arti, istituzione privata supportata dalla Khalid Shoman Collection che, creata ad Amman nel 1988, è il più dinamico motore di creatività in Medio Oriente da cui sono passati numerosissimi artisti, tra cui Emily Jacir, Mona Hatoum, Hrair Sarkissian), non può non notare i poster che tappezzano la città, causando costanti interferenze con la visione del paesaggio urbano. È così fin dal suo arrivo all’aeroporto Queen Alia, lungo la Route 15, una trentina di chilometri a sud della capitale.
Questo flusso d’informazioni contradditorie, immagini eloquenti associate a slogan di difficile accesso per chi non parla l’arabo diventano per la giovane fotografa il filo conduttore per tracciare una sua personale mappa temporanea del territorio.

VINCITORE DELL’EPA – European Photography Award 2017, il premio assegnato agli studenti delle più importanti scuole europee di fotografia, Jordan General Election 2016 è stato esposto al Foro Boario di Modena (in concomitanza con la mostra The Summer Show che, oltre ai lavori di fine corso degli studenti del master di Fondazione Fotografia del biennio 2015/2017, includeva i finalisti dell’Epa e le foto realizzate da docenti e studenti della Tokyo University of the Arts Geidai, durante la loro residenza presso la fondazione modenese).

«Amman è molte città insieme, e non ci sono viali rettilinei e piazze ordinate a separare i quartieri, zone completamente differenti per cultura e architettura si compenetrano e si spalmano le une sulle altre al di là di ogni concetto di confine reale o presunto. Mentre cercavo un orientamento i manifesti sono stati il mio filo di Arianna, l’unico elemento di congiunzione fra aree totalmente opposte come Abdoun, il quartiere più ricco e occidentalizzato di Amman e Ain Albasha, un ex campo profughi diventato ora un insediamento permanente, sul confine col deserto», scrive Paterniani nella fanzine concepita come elemento fondamentale del lavoro. In realtà, le edizioni della fanzine sono due (entrambe di 30 copie), la prima delle quali prodotta da Darat al Funun con qualche minima differenza rispetto alla seconda.

Per Zoe Paterniani, «la fotografia è il pretesto di un progetto mentale, ma anche di vita, un’esperienza». «Sono arrivata ad Amman peina di energie e felice per l’opportunità, ma anche con molta ansia. La mia intenzione era molto diversa rispetto al lavoro. Volevo fare ricerche sul tema della donna, anche se ero incerta sulla modalità di ’avvicinamento’. Ma la mia identità  e, soprattutto essere una donna sola, sono stati i veri ostacoli». Così, anche un po’ inconsapevolmente, la fotografa si è ritrovata a osservare le dinamiche delle elezioni legislative che hanno avuto luogo il 20 settembre 2016, precedute dall’abbuffata propagandistica, che ha chiamato al voto oltre quattro milioni di giordani di cui un 52 per cento di sesso femminile. Le candidate stesse sono state 252 e si sono guadagnate un 16% finale di rappresentanza in Parlamento.

Zoe Paterniani, Parlamento 4, 2016
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«GIRANDO PER LA CITTÀ scattando fotografie di ricognizione del posto, mi sono accorta che nelle mie immagini apparivano sempre quei poster. All’inizio mi disturbavano molto, non riuscivo a trovare un angolo in cui non ci fossero. Allora mi sono detta che forse aveva senso seguirli e andare a vedere dove fossero e come l’immagine stessa, da sola, fosse sufficiente a veicolare il messaggio, al di là degli slogan. Durante la mia residenza sono stata molto aiutata, in particolare da due collaboratori di Darat al Funun con cui sono diventata amica, Yasmine Anabulsi e Laith Qattan». Grazie a loro, Paterniani ha avuto modo di comprendere meglio i meccanismi della politica in un paese come il regno hashemita di Giordania, il cui peso è particolarmente rilevante nell’equilibrio del Medio Oriente. «Il sistema è fondato sulla tribù e sulla famiglia, non esiste il voto svincolato da questo discorso. Quelle elezioni erano le prime con una nuova legge elettorale non a preferenza diretta, che prevedeva quindi due voti, uno per la lista e uno per il candidato. Mi è stato spiegato come i partiti conservatori, lì, siano in realtà i più forti nella comunicazione, nell’uso dei social e dei nuovi media. Il contrario di quel che, forse, avviene da noi. Ciò ha anche inciso sulla loro vittoria».

NELLE SUE FOTOGRAFIE il caos visivo viene «ripulito» attraverso l’uso consapevole del linguaggio bianco e nero, mentre a colori sono realizzate quelle foto che contribuiscono a documentare la disillusione nei confronti di una politica ritenuta troppo accomodante nei confronti di Israele, condivisa da molti giovani giordani considerando che nel paese – stando ai dati dell’Unrwa – sarebbero oltre 2 milioni i profughi palestinesi, 10 i campi ufficiali e 3 quelli non ufficiali.
In questo nucleo di immagini a colori il confronto con il passato avviene attraverso la documentazione delle sale del Museum of Parliament Life: «il vecchio edificio del Parlamento fatto di stanze vuote, arredate al minimo, che presenta anche le foto storiche incorniciate che raccontano quello che avveniva lì dentro. Mi interessava come l’immagine tornasse a essere fondamentale nel comprendere il sottotesto dell’ambiente. Ma anche come quelle foto fossero messe lì a suggerire che quelle scene erano effettivamente successe in quel luogo, ma senza che portassero a una reale reimmersione nel contesto».

I TANTI INTERROGATIVI innescati dal Master di Fotografia appena concluso da Zoe Paterniani si riflettono in particolare in un altro lavoro iniziato in Giordania che l’autrice intenderebbe sviluppare durante un successivo soggiorno a Darat al Funun.
In particolare, la lezione di Adrian Paci sull’intensità del lavoro e sulla sua costruzione attraverso i diversi strati all’interno dell’immagine, è stata decisiva per lei nel cogliere il tema del confine, quando lungo le coste giordane del Mar Morto ha avuto modo di osservare l’orizzonte. «Un mare che è chiuso, con i suoi gazebi di paglia e le sedie su cui siede la gente che sta lì a bere il tè e fumare la shisha, mentre guarda il confine con la Palestina».