Dal teatro senza spettacolo evocato da Carmelo Bene siamo passati allo spettacolo senza teatro imposto dalla confindustria del pallone: stadi vuoti, spalti deserti, ritiri blindati, festeggiamenti vietati, tamponi rubati, quarantene immaginate. Il tutto per intascare la sesta rata stagionale delle televisioni, che le società hanno già immaginato nei loro disastrosi bilanci.

Altrimenti crolla tutto. Diffidate di chi vi dice che il pallone è la terza industria del paese, o altre amenità del genere, e il calcio deve ripartire perché nel meraviglioso mondo della trickle down economy le briciole dei miliardari andranno a sfamare i poveracci.

Secondo l’ultimo report della stessa Figc, a fronte di un valore di produzione di 3,5 miliardi di euro l’anno, i club professionisti presentano un indebitamento aggregato di 4,27 miliardi. Insomma, stanno con le pezze al culo. Un club molto importante del centro Italia ha appena pubblicato i risultati dell’ultima semestrale del 2019-20: indebitamento netto a 280 milioni. Fuori da ogni parametro consentito. Questo è il benessere che porta il pallone al paese.

Al di là del miliardo di imposte versate che nessuno nega, le società sono sull’orlo costante del fallimento, e ora tra svalutazioni dei calciatoti, diminuzioni dei ricavi (botteghino, sponsor, merchandising), televisioni che chiedono sconti e calciomercato in fumo, sarà ancora più difficile produrre quelle false plusvalenze, quei maquillage finanziari che permettono di restare a galla.

Ecco perché bisogna ripartire. Anche senza pubblico, senza gioco – una partita ogni tre giorni in piena estate, con lo spettro della pandemia che incombe su ogni tocco di palla – senza attori, senza teatro. Riparta solo lo spettacolo, nella sua oscenità di un colpo di testa nel vuoto o di una punizione all’incrocio del nulla. D’altronde i padroni del pallone sono gli stessi del paese: industria, commercio, trasporti, editoria, telecomunicazioni. Ovvio che alla fine decidano loro. Al massimo ad ammalarsi saranno medici, calciatori, dipendenti, magazzinieri. Effetti collaterali.

Come i lavoratori sacrificati sull’altare del plusvalore durante il lockdown. Per questo quando si legge ovunque magnificare il modello tedesco – ieri la è ripartita la Bundesliga – più che al gegenepressing il pensiero va all’ordoliberalismo, dove l’economia di mercato diventa principio ordinatore della vita sociale. Alla fine il protocollo giusto, la legge ad hoc, l’esenzione speciale, gli iter burocratici e giudiziari accelerati, arriveranno in tempo per la ripresa dello spettacolo.

Si troverà un modo per fare i tamponi ed evitare le quarantene, a seconda dell’importanza delle partite, per isolare ma non troppo i calciatori, dipende dalla trasferta, per ridurre le imposte e aumentare gli aiuti, per togliere ogni responsabilità civile e penale non tanto ai medici quando ai padroni. Come nel resto del paese.

Poi dietro questo immenso velo dello spettacolo che tutto nasconde abbagliando, c’è il mondo sommerso del calcio di base e del calcio popolare fatto di proprietà collettive e di azionariato diffuso, di un binomio inscindibile tra tifosi e giocatori, di faticoso lavoro didattico ed educativo, di alti valori morali e sociali, che non sa se riuscirà a ripartire. Perché la trickle down economy non ha mai funzionato, quando i padroni banchettano non lasciano nemmeno una briciola.

Figuriamoci nel calcio italiano, dove si riparte non perché ci siano o meno le condizioni sociali e sanitarie per farlo, ma perché c’è una rata dei soldi delle televisioni da mettere a bilancio.