Tornare dopo quarant’anni a Ravenna, la paludosa «città morta» fra i rami del Po di una memorabile ‘diapositiva’ di Sidonio Apollinare. Per chi è nato altrove, ad esempio sulla sponda tirrenica, e ancora oggi si spaesa davanti al disco del sole che sorge dall’acqua, il concetto «Ravenna» ha cominciato a prendere forma sui banchi incontrando Teodorico e Giustiniano, Dante (via-Sapegno) e il manuale di Argan, con quel senso di angoscia e di malinconia sottile che meglio di Dora Markus non si potrebbe dire: «E qui dove un’antica vita / si screzia in una dolce / ansietà d’Oriente…». Sentimenti quasi astratti, trasmessi a scuola da un’idea ciclica, ‘gibboniana’, della Storia. Finché la Storia non la si andava a trovare dal vivo progettando il viaggio che avrebbe dato corpo all’alone impalpabile dei Nomi, ed eccoci sotto i mosaici verdi e oro – impaginati dentro gli involucri di laterizi – come falene intorno a una lampada.
Un buon motivo per tornare a Ravenna – che sta con ogni evidenza scaldando i motori per le celebrazioni dantesche del 2021, le prime con turisti global-digitali (Dio ne scampi) – è il nuovo Museo «Classis», inaugurato nel dicembre scorso con gran dispiego mediatico e tra poco diremo perché. Ma restiamo ancora per un momento nel vortice delle suggestioni che le parole sono in grado di scatenare: Classis è il termine latino per «flotta», e secondo un celebre passo di Gellio – «classicus» cioè «appartenente alla prima classe dei cittadini» e quindi «di prim’ordine» («scriptor classicus») – da lì deriva, con qualche slittamento semantico, il nostro «classico». A Ravenna «Classis» divenne a un certo punto toponimo, a significare il porto strategico voluto da Augusto, e come tale è entrato nella Storia dell’arte, stampandosi nel titolo della chiesa dedicata al vescovo patrono della città, originario di Antiochia: Sant’Apollinare in Classe (mentre Sant’Apollinare Nuovo è situato dentro le mura gotiche).
Adesso «Classis», come detto, è stato battezzato il museo allocato nel dismesso zuccherificio di Classe dopo lungo, costoso e – a quanto pare – riuscito recupero, proprio nelle vicinanze della basilica bizantina con il suo bel campanile cilindrico, in parte riedificata dopo i bombardamenti dell’ultima Guerra. La sua sagoma, culminante in un timpano, sembra pantografata nel mastodontico edificio, rivestito anch’esso di mattoni rossi, che si staglia nella luce lattiginosa di un cielo alla Ghirri. Inaugurato nel 1899, diede presto vita a un’avventura fortunata (l’epopea della barbabietola!), raggiungendo il suo apice a metà degli anni sessanta, con la ragguardevole quota di 36.000 quintali di materia lavorata. Imboccato il viale del tramonto, la produzione fu definitivamente interrotta nel 1982, con danni sia per l’occupazione locale (al massimo del suo splendore lo zuccherificio dava lavoro a 600 persone), sia per il territorio: al progressivo sfacelo delle murature che avvolgevano macchinari inutilizzati si aggiunse il degrado del paesaggio circostante, in stato di abbandono. Proprio per riguadagnare alla vita della città, che è distante circa quattro chilometri, un’area dal così cogente passato – remoto e prossimo –, diversi anni fa l’amministrazione cittadina progettò il recupero di quel capitolo di archeologia industriale. Il sindaco e il comitato scientifico lo hanno presentato alla stampa e ai media come terzo tassello del «Parco archeologico di Classe», del quale fanno già parte il sito dell’antico porto romano, inaugurato nel 2015, e, naturalmente, Sant’Apollinare. L’allestimento è di natura per così dire mista, sia multimediale sia tradizionale, con pannelli didattici essenziali ispirati al Museum of London, ricostruzioni grafiche e tridimensionali, filmati, reperti di vita vissuta, modelli in scala di architetture (il Palazzo di Teodorico, la basilica di San Severo…). Al percorso cronologico, di cui diremo, si affiancano trasversalmente delle isole a tema come «Ravenna e il mare», «Pregare a Ravenna» (sulla storia degli edifici di culto), «Abitare a Ravenna». Ma torniamo in esterni.
La facciata coi suoi grandi finestroni industriali si impone da lontano. La vecchia ciminiera dello zucchero è stata demolita. Al centro della rampa di accesso, a fare da spartitraffico pedonale, un muretto sormontato da un ruscello d’acqua mosaicato. Ci accolgono nel vestibolo due segnali evocativi di immediato impatto: un esergo di Arnaldo Momigliano («Quando voglio capire la storia d’Italia, prendo un treno e vado a Ravenna») e, sul soffitto, la riproduzione del porto di Classe con la nave a vela, da uno dei grandi mosaici che fasciano Sant’Apollinare Nuovo. Si entra nel gigantesco capannone, tagliato da una lunga spina centrale segnatempo: la comunicazione ufficiale del Museo l’ha denominata «linea del tempo», espressione a occhio e croce risalente all’inglese timeline, che rimanda con ogni evidenza all’info-grafica dei manuali scolastici di nuova generazione (una volta c’erano gli «specchietti»): l’asse orizzontale che cambia colore a seconda dei secoli e delle epoche, con vari ‘denti’ in alto e in basso cui corrispondono le date-chiave della Storia.
La ratio del progetto sembrerebbe rispecchiare piuttosto fedelmente la natura sociale e ‘politica’ sottesa a «Classis»: un museo, anzitutto, «della città e del territorio», che vuol dire anche, è da credere, per la città e per il territorio. Il tessuto storico infatti viene prima delle sue espressioni artistiche, e l’Arte va sempre compresa, ammirata e vissuta all’interno della comunità che l’ha ereditata ed è incaricata di custodirla e tramandarla. Non troverete qui il capolavoro che richiama le folle – finendo per mangiarsi tutto il resto; l’intento è piuttosto quello di fornire al visitatore, ravennate e non-ravennate, qualche strumento in grado di far vibrare la sua coscienza civica. In fondo anche gli abbaglianti mosaici bizantini per i quali si viene (e si torna) in questa città di esarchi e imperatori, per essere davvero compresi vanno inseriti in un sistema di significazione più profondo della pur calamitante facies cromatica e iconografica. Non mancano, a ogni buon conto, testimonianze degne d’interesse: come la kylix attica a figure nere di epoca pre-romana; il mosaico con i pugili (I sec. a.C.) ritrovato a Ravenna in via d’Azeglio, dove oggi si può visitare la cosiddetta Domus dei tappeti di pietra; una statua femminile acefala in marmo del I secolo d.C., con, accanto, una testa della dea Fortuna (II secolo) coronata – come l’Italia turrita della «Siracusana», popolare serie di francoboli anni cinquanta – da una cinta di mura; ancora, il grande mosaico a motivi geometrici del Palazzo imperiale di Teodorico; il cosiddetto Tesoro di Classe (VII secolo), costituito da sette cucchiai e una patera in argento dorato, custoditi in una cassetta con diversi servizi da tavola di età tardo-antica, disseppellita nella zona portuale nel 2005.
Ma cosa significa questo nuovo Museo, la cui ‘prima pietra’ fu collocata nel lontano 2002, per una comunità che è solita fregiarsi soprattutto dei suoi tesori romano-goto-bizantini? Ora che la vecchia fabbrica morta è un luogo (di nuovo) vivo, Ravenna invita i propri cittadini sia giovani sia vecchi a qualche ora di educazione civica nel vecchio capannone che custodisce (anche) le memorie di famiglia – visto che lo zucchero ha sostenuto per decenni una fetta dell’economia locale. L’onda lunga della Storia, magari inconsapevolmente, li lambisce. Dalla fondazione della città (etrusca?) alla romanizzazione, dall’età ‘dell’oro’ (V-VIII secolo) al Medioevo, dall’epoca moderna all’ultimo dopoguerra – comprese, in una sorta di ‘abisso’ narrativo, le vicende e le immagini dello stesso zuccherificio –, la cavalcata cronologica dentro «Classis» rischia di essere meno faticosa, e assai più sinestetica, di un intero ciclo scolastico.