Simon Bussy a Mud House, da Oliver Strachey, fotografia di Ray Strachey, 1923, Londra, National Portrait Gallery
Simon Bussy, “Tête de mandrill”, circa 1920, coll. priv.
Simon Bussy, “Portrait de Lady Ottoline Morrell”, circa 1920, Londra, Tate Gallery
Simon Bussy, “Portrait d’André Gide”, 1925, coll. priv.

Come trasformare, con l’arte del ritratto, una bestia in persona e una persona in bestia? Come fare, degli esseri viventi, un pungente campionario di eccentrici – Gide o mandrillo, Lady Morrell o vipera di Russell – con la penetrazione, ma vellutata, dell’occhio? È la storia di un pittore – Simon Bussy – che si è trovato tardi e ha incrociato, relazionandoli, tre luoghi eminenti della cultura novecentesca: l’atelier Moreau, il circolo di Bloomsbury, gli scrittori della «Nouvelle Revue Française».
Francese del Giura (nato a Dole nel 1870), fece un soggiorno a Londra – il primo – nell’autunno 1901 (data presumibile). Affitta un atelier al 38 di West Cromwell Road: l’inizio di una nuova vita e, soprattutto, di un nuovo vedere, che lo porterà, circa il ’12, alla sua espressione più personale e definitiva. I rapporti con la famiglia Strachey lo introducono in un mondo, dominato dal Bloomsbury Group, affatto diverso da quello della sua formazione accanto a Matisse, amico per sempre, nello studio di Gustave Moreau. Sposatosi con Dorothy Strachey, autrice di Olivia (1949), acquistano nel ’03 una casa di sogni: La Souco, non grande, con terrazzamenti a vigna e olivo, nei pressi dell’antico villaggio di Roquebrune-Cap-Martin, fra Mentone e Principato di Monaco. Vi si installano in permanenza. Di qui Lytton Strachey, l’irriverente biografo «in miniatura» fratello di Dorothy, godeva «la più bella veduta d’Europa», fra «scale in marmo, sedie Chippendale, cabinets Luigi XIV, quadri impressionisti»; Virginia Woolf, invece, non amava le «ville posate come delle uova – tale quella dei Bussy (dove passò nel maggio ’33, ndr) – su dei cornicioni della scogliera a picco, in modo che non si può né salire né scendere, ci si deve accontentare di restare seduti a contemplare il mare senza fine…».
La Souco, diventata succursale mediterranea di Bloomsbury, accoglie paritariamente gli scrittori della «NRF»: il tramite è André Gide, che i Bussy conobbero nel 1918 a Cambridge (Dorothy sua insegnante di inglese) e che divenne per loro figura-cardine, affettivamente e culturalmente. Anche Matisse, dal 1917 stanziato a Nizza, saliva in visita a La Souco, rinnovando con Bussy il rapporto di intimità nato da giovani, allievi di Moreau. Fra loro restava viva la memoria di quella che era stata la palestra del nuovo – poi sviluppatosi nel fauvismo, ma senza Simon –, con i legami connessi: Rouault, Evenepoel, Marquet…
Può sorprendere il tipo di amicizia, inossidabile lungo i decenni, che era venuta a crearsi fra i temerari, i coloristi, all’École, sotto l’insegnamento di Moreau. Ce ne rendiamo conto attraverso gli epistolari. A motivarla era il comune risentimento verso «la macchina decervellatrice» (Matisse) del Prix de Rome, l’idem sentire intorno al proprio compito. A cementare questo sentire era l’impareggiabile lezione di indipendenza donata da Moreau, professore socratico, che minava dall’interno l’istituzione favorendo in ciascuno i propri carismi, anche e soprattutto quando divergevano dalla norma.
Pierre Schneider ha letto gli esordi di Matisse all’insegna della figura della ‘grotta’. Questa figura, di cui ha fornito l’esplicazione all’interno di un piccolo insieme di opere, è traslabile nell’esperienza dello studio Moreau: le note di acuta nostalgia di cui sono disseminate le testimonianze scritte indicano in quell’esperienza un intreccio edipico di spinta all’emancipazione e desiderio appunto di «caverna», desiderio che è alla base di un vero e proprio mito dell’atelier. Matisse, nel cupo della Seconda guerra e dell’intervento chirurgico che gli salvò la vita, quasi implorava Rouault, in una lettera, di redigere la memoria di quei giorni basilari e lontani, di «fare “l’Atelier Moreau”»: «tu, l’infaticabile, puoi farlo, devi farlo: hai tutto il materiale necessario e anche il sacro fuoco. (…) È il minimo che possiamo fare per il nostro buon capo. Coraggio, amico mio, coraggio!».
Visita in quai Saint-Michel
L’atelier Moreau aveva i suoi prolungamenti nelle sale del Louvre – dove gli allievi era spinti a rinfrescare l’occhio e a esercitarsi in copie dagli antichi maestri – e negli studi di ciascuno di essi, frequentati dagli altri, anche operativamente. Capitava che fosse lo stesso Moreau a fare visita agli allievi, come risulta da una pagina incantevole delle Lettres à mon père di Henri Evenepoel (documento unico per freschezza cronachistica, non velata dal ricordo), dove il vecchio maestro, in compagnia del giovane pittore belga, si arrampica faticosamente «lungo le scale di una vecchia casa al n. 19» di quai Saint-Michel, l’atelier di Matisse, per esaminare «una decina di tele dai toni squisiti, quasi tutte nature morte».
Fra i vari documenti visivi di questa partecipazione ambientale, del mito dell’atelier come caverna, una saporita teletta di Matisse, 1896, documenta la sua familiarità con Bussy, ritratto mentre dipinge nello studio dell’amico, che era a un tiro di schioppo dal suo nell’île Saint-Louis. Si facevano visita di continuo, si spiavano, si correggevano. Hilary Spurling, nella biografia di Matisse, ha messo a fuoco i termini del loro rapporto: Matisse, maggiore di sette mesi, dipendeva dal giudizio di Bussy più che viceversa. Quest’ultimo, accanto a Rouault, era la vedette dell’atelier Moreau: «un prodigio di piccola taglia, timido e silenzioso». Secondo la testimonianza di Eugène Martel, altro allievo di Moreau legato a Bussy (abitavano insieme), «egli era già il pittore di Parigi, capace di fare i morceaux più strabilianti» tecnicamente, a livello (dice) di Degas. Bussy e Matisse condividevano la stessa posizione sociale: provinciali alla conquista della capitale, una famiglia di borghesia dei commerci, nel caso di Bussy scarpe e macchine da cucire. Entrambi avevano tralignato per una strada quantomai incerta, economicamente precaria e anzi disperata: Bussy si scambiava con Martel uno stesso paio di pantaloni.
Il tono ruggine, rialzato da una nota d’oro, del tableautin matissiano di cui sopra, dice tutto l’incantamento – già scoperto l’impressionismo – per la pittura sombre, «olandese», frequentata al Louvre. È un segno distintivo del gruppo degli indipendenti-Moreau, che cerca nell’antica pittura di ‘valori’ un’alternativa al morto dell’Accademia, come già Fantin-Latour. In questo momento Matisse e Bussy dipingono uguale: due tele del 1895 – La liseuese, del primo; Portrait d’Albert Maignan, dell’altro – sembrano quasi fotocopia, nel morbido degli scuri. Un semi-capolavoro di Bussy – che non ha ancora modificato in Simon il nome proprio Albert – è Le Joueur de clarinette: lo strumento scintilla nel buio profondo. È Rembrandt il maestro cui guardare, su suggerimento di Moreau: il quale proprio a Rembrandt si riferisce nel precetto, riportato da Bussy, «dipingete con i fanghi!».
Fuochi sul Monte Bianco
Nell’arte del giovane Bussy, un episodio di grande qualità è segnato dal viaggio che, a piedi, sacco in spalla, egli intraprende nel 1896 attraverso le Alpi, la Svizzera e la Baviera. Scrivendo a Matisse, la catena del Monte Bianco gli appare «un immenso animale rampante», la sera «le sue scaglie d’argento sprigionano fuochi, come milioni di diamanti e di topazi…». La descrizione, presagente il lucido animalier che Bussy diventerà, si accorda solo in parte con la timida scoperta del colore, il rosso in particolare, di cui egli tinge i cieli di montagna nei pastelli riportati dal viaggio, uno stacco dai paesaggi precedenti, realizzati in toni sommessi nella tradizione di Corot, e Redon. Segue una serie di vedute del Jardin du Luxembourg, ma è l’esperienza della Costa Azzurra, scoperta probabilmente nell’inverno 1899-1900, a determinare la svolta cromatica, che, se si esprime nei pastelli (ora mescolati, con effetti di maggiore profondità, alla gouache), non agisce altrettanto nelle tele, le quali anzi, con le grandi, crepuscolari «machines de Salon» realizzate per il Salon d’Automn, segnano una battuta d’arresto, un indugiare verde attutito, grigio argento, nel vecchio sogno simbolista: si avverte l’influenza di Whistler, secondo maestro di Bussy, non decisivo quanto Moreau. La terrazza della villa La Souco è spesso il set di questi quadroni in cui il pittore investe troppe energie: frena così la scoperta della sua personalità stilistica, che avrà luogo, di lì a non molto, in opere medio-piccole, soprattutto pastelli, svariando nei generi: ritratti, paesaggi e soprattutto il bestiario.
Il più inglese degli artisti francesi, si è detto di Bussy. Il libro di Philippe Loisel, catalogo della mostra 1996 nei musei di Beauvais, Dole, Roubaix, fornisce al dettaglio i vari agganci biografici per seguire questo brillante dirazzamento. Figura-chiave è Auguste Bréal, altro camarade dell’atelier Moreau, che introduce Bussy presso l’illuminata famiglia Guieysse, la quale media il rapporto con gli Strachey. Segnato all’inizio da un’asimmetria sociale che imbarazza l’altolocata e coltivatissima discendenza britannica – uno choc, per Lady Strachey, Little Bussy che «pulisce il piatto con pezzi di pane», e poi, soprattutto, fidanzato di sua figlia! –, questo rapporto è alla base dell’anglicizzazione del francese dagli occhi vivi e i capelli corvini.
Entrato in rapporto, attraverso Lytton Strachey, con gli stravaganti di Bloomsbury, che frequenta regolarmente durante i più o meno prolungati soggiorni londinesi, Bussy, in particolare, è aiutato e incoraggiato da Roger Fry proprio negli anni in cui questi lavora alla promozione inglese del post-impressionismo: Fry, nel ’07, firma la prefazione della mostra di Bussy a Leighton House. Fra gli antichi pittori italiani studiati da Fry c’è Piero della Francesca, la cui arte, in particolare il dittico dei duchi di Urbino, non è estranea alla stilizzazione cromatica adottata da Bussy nella produzione ritrattistica, stretta sul solo volto, a partire da circa il ’10: massimo esempio il profilo inciso e vibrante, caricaturato, di Lady Ottoline Morrell, verso il ’20. E sappiamo che nello spingere l’allievo Duncan Grant a copiare dal passato, Bussy è su Piero che insisteva specialmente. La parentela degli Strachey con Ray Costelloe, figliastra di Bernard Berenson, introdusse del resto Simon nel mondo del regale conoscitore, che possedeva, di lui, tre ritratti e una piccola, deliziosa gouache animalistica, il Black Hornbill (bucero nero) – la visita dei Bussy a I Tatti è dell’ottobre 1919.
Il «divino» alpinista
La formula ritrattistica messa a punto da Bussy, tagliente nella definizione dei contorni, morbida nel trattamento cromatico, prevede sicuramente anche influenze inglesi contemporanee: egli stimava, ricambiato, l’egregio ritrattista William Rothenstein, che si era formato a Parigi sugli esempi di Whistler e Degas. Dagli scrittori alla Gentry, Bussy offre un carosello di tipi che è anche una penetrante ‘sociologia’ in linea con la tradizione inglese. Nondimeno scolpisce quali singolarità assolute i suoi modelli, sottoscrivendo Lytton Strachey: «Le creature umane sono una realtà troppo importante… hanno un valore indipendente da qualsiasi processo temporale, un valore eterno che deve essere espresso e sentito in sé e per sé».
Ma altrettanto ‘importanti’ di Gide, Martin du Gard, Valéry; il ‘divino’ alpinista George Mallory, morto giovane sul Tetto del Mondo, angelo sterminatore nella bisessuale Bloomsbury; l’amico pittore brussellese, vicino di casa nel Midi, Jean Vanden Eeckhoud… sono le bestie dello zoo di Londra, che sotto il pennello individuante di Bussy escono perentoriamente dalla catena della specie, sottraendosi allo schema classificatorio: cervo muntjac, pantera nera, scimmia d’Abissinia, ibis rosa, gatto, rigogolo delle isole diventano quasi nomi propri se associati ai ‘ritratti’ relativi dipinti dal francese. Scrive Bussy in un testo per la monografia di François Fosca a lui dedicata, 1930, dalla «NRF»: «I miei animali, uccelli, rettili non hanno niente di fantasioso; sono ritratti veritieri in cui la somiglianza si libera dell’accidentale con sempre maggiore nettezza, precisione, purezza».
Le prime frequentazioni dello zoo di Londra datano 1912. Preferiti sono gli animali esotici con le loro fogge sorprendenti, gli uccelli in particolare (i tucani) ma anche i rettili e i mammiferi. Lunghe sedute di pazienza sul modello, a stabilire un’intimità pittorica che a volte, nel risultato, è contrassegnata da colorati segni «d’officina» sui lati del foglio: Bussy ha scelto di tenerli a vista. I lavori presentati allo stato di studio sono i più riusciti, i più freschi. A volte egli elabora a margine dei dettagli anatomici: La Grande Panthère e la sua propria coda, un foglio del 1920-’21 il cui ricordo ossessiona Gide, che brama di acquistarlo, come confessa a Dorothy Strachey, in una lettera del loro corposo epistolario.
Bussy non ha smesso, nel frattempo, la ricerca sul paesaggio: il colore vi è distillato signorilmente, non di rado a risparmio, nella granulosità del pastello, «il cielo è ineffabilmente puro – è Gide nel “Carnet d’Egitto” (1939) del Diario –, di un azzurro tenero appena appena sfumato come in un pastello di Bussy, un azzurro mescolato all’oro del tramonto sopra la montagna rosa di Tebe». Vaporose lontananze: ma una diversa tipologia – maggiore risoluzione ottica, piattezza e separazione dei colori – è nelle corde di Bussy, che l’aveva sperimentata sistematicamente, proprio in Egitto, dieci anni prima, quando, su richiesta dello storico e diplomatico Gabriel Hanotaux, illustrò la monumentale Histoire de la nation egyptienne (1931-’41). La funzione archeologico-documentaria si rapprende in immagini metafisiche, fra i gialli abbaglianti del deserto e i pallidi verdi nilotici.
Bussy morì a Londra il 12 maggio 1954, a 84 anni. La sua arte originale, estranea a ogni forma di rinnovamento, vivido condensato di un modernismo della ‘qualità’ e di un ambiente charmant assediato dalle guerre, fu dimenticata. Un suo pastello in cornice dorata: andrebbe giudicato fuori dal tempo, sul metro delle tradizioni decorative del passato… Ho sul tavolo, smilzo nel verde malva Sotheby’s, il catalogo dell’asta londinese in cui, morto l’erede John Strachey, venne disperso, nel dicembre ’64, l’intero atelier: oblio! Un’altra asta (Piguet, Ginevra) ha smembrato, il settembre scorso, la collezione di Catherine Gide, figlia di André (e nipote di Théo van Rysselberghe): ricco il corpus delle opere di Bussy, Simon è uscito un attimo dall’ombra. Le aggiudicazioni, abbastanza promettenti: due grandi aironi bianchi decalcati nel cilestrino, 75000 franchi svizzeri. Non sai cosa leggere negli occhi neri a spillo, nei lunghi e sottili becchi rosa, se non che il piccolo Bussy ha amato teneramente quella coppia animale e l’ha testimoniato nell’esprit du trait.