Leonardo Lidi, uno dei registi più interessanti della nuova generazione (e non a caso promosso già vicedirettore della scuola per attori di Torino), ci ha in qualche modo abituato a una continua variabilità di riuscita nelle sue realizzazioni. Spesso affascinanti e «perfette» nella loro composizione, talvolta giocate su piani che disorientano e restano di dubbia comprensibilità. Dopo la “perfezione” quasi geometrica della strindberghiana Signorina Giulia (e perfino di uno sportivo ripescaggio dannunziano), gira ora in tournée un suo clownesco Zoo di vetro prodotto dal Lac di Lugano. Tennessee Williams scrivendolo ne aveva fatto una metafora delle insicurezze e delle false identità nel cuore profondo dell’America. Lidi lo trasforma in una sorta di carillon rovesciato dove i personaggi sono tutti maschere e clown (nell’abito e nei movimenti) di un circo degli affetti e di ogni raporto socialfamigliare. Non è che non resti l’assunto del racconto del drammaturgo, probabilmente autobiografico, ma sfuma, o almeno si attenua, il pathos del racconto originario. Le dinamiche di carriera e di sistemazione sociale (attraverso la via «sentimentale») di quella esemplare famiglietta, diventano meccaniche e comicamente prevedibili, come le cadute (fisiche) dei personaggi con le scarpe appunto da clown. Nonostante l’impegno che vi profondono gi attori , da Tindaro Granata a Lorenzo Bartoli (troppo sopra le righe la madre Mariangela Granelli). Sarà anche l’effetto di questi inaspettati giorni di guerra che ci troviamo a vivere, ma lo scoprire la «vita» così meccanicamente orientata al terremoto finale, può non coinvolgere lo spettatore che da quel testo si aspetta una qualche emozione. Ma non è poi detto: lo spettacolo riceve molti applausi, anche se i cuori non vanno in pezzi come i pupazzetti di vetro di quello zoo familiare.