Che Dada non sia stato solo un movimento artistico è il merito più rilevante che si ricava dalle mostre che Zurigo ha allestito per celebrarne il centenario della nascita: al Landesmuseum Dada Universal, al Museum Rietberg Dada Afrika e al Kunsthaus Dadoglobe Reconstructed, in attesa che arrivi a giugno la retrospettiva su Francis Picabia. D’altronde fu lo stesso Hugo Ball, il fondatore, con la sua compagna Emmy Hennings,  i suoi amici della prima ora, Tristan Zara, Hans Arp, Marcel Janco, Max Oppenheimer, del Voltaire, il cabaret letterario dadaista aperto sulla Spiegelgasse il 5 febbraio, a dichiarare: «il dadaista non crede più alla comprensione delle cose da un unico punto di vista». Esattamente un anno prima, ancora Ball con Richard Huelsenbech, in un manifesto letterario per ricordare i poeti caduti in guerra, scrive: «Noi saremo sempre contro. Noi procediamo slegati contro tutti gli ismi, i partiti e le concezioni».

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Hugo Ball e Emmy Hennings

L’anarchia estetica dadaista – anzitutto letteraria e teatrale – precede l’avventura zurighese, sviluppandosi nei circoli antimilitaristi e anarchici di Berlino. È lì che Ball denuncia tutta la sua avversione al «massacro meccanico» della guerra per averla brevemente conosciuta da volontario al fronte e definisce, intorno alle parole d’ordine di libertà, disordine, sfrontatezza e negatività, la concezione di vita dadaista. Tuttavia è a Zurigo che si sperimenta in concreto la possibilità – sulle orme dell’ottimismo di Candide – di allontanare da sé lo spettro della guerra mischiando generi e temi pur di generare quella reazione di protesta per non «patire le dissonanze» del presente.

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Sophie Taeuber-Arp, «Autoritratto con testa Dada», 1920 (nella mostra «Dadaglobe»)

Non c’è migliore dimostrazione di questa presa di coscienza davanti alla follia della guerra che vedere al Landesmuseum la mantella mimetica di un combattente francese vicino a un fucile Lebel fusosi al fronte e accanto leggere la frase di Aragon: «la pace ad ogni costo in tempo di guerra e la guerra a ogni costo in tempo di pace». Perché, come dirà Tzara, «noi eravamo risolutamente contro la guerra, senza per questo cadere nelle facili pieghe del pacifismo utopistico». I rimedi al nonsense bellico degli Stati moderni ma al tempo stesso contro «i modi in cui il grottesco e l’assurdo superavano di gran lunga i valori estetici», compaiono tutti all’interno di teche disposte come totem nel nuovo padiglione del museo zurighese. Su una maglia ortogonale con al centro la «kaaba del Dadaismo» – dentro alcuni documenti del Dada parigino – all’irrazionalità distruttrice della guerra i dadaisti rispondono con il «vivere all’unisono con la follia» (Ball). La follia sentita nel sogno e nella sessualità, nella lettura mistica dei vangeli gnostici (Pistis Sophia) e nella storia cosmogonica dell’Uovo cosmico, che prende le forme delle duchampiane «macchine celibi» e dei ready-made (Grand Verre, La Boîte Verte, Fountain) si manifesta nella danza e nei travestimenti (maschere di Janco, costumi degli indiani Hopi di Sophie Taeuber-Arp). «Il dadaista – dirà ancora Ball – ama lo straordinario, l’assurdo. Ogni sorta di maschera gli è perciò benvenuta».

Nella sua particolare concezione antidogmatica nei confronti di ogni tendenza del modernismo e, più in generale, della cultura occidentale, vi concorrono il Teatro della Crudeltà di Artaud, espressione della sofferenza dell’esistenza, e la filosofia di Nietzsche perché anche per il filosofo tedesco la «disciplina formativa del dolore ha creato ogni eccellenza umana». Contro un «mondo vacillante» e pieno di contraddizioni, Tzara incita nel Manifesto redatto nel 1918 «ogni uomo a gridare» perché si compia quel «lavoro distruttivo», la tabula rasa che conduca alla «compiutezza dell’individuo». Avverte di preparare «la soppressione del dolore» per sostituire «le lacrime con le sirene allungate da un continente all’altro». Dada in quell’anno è già un movimento internazionale come sognavano i suoi fondatori. A New York, Picabia, Duchamp e Man Ray si distinguono per i loro «gesti» e scritti

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Raoul Hausmann, «Mechanical Head»

A Berlino, Grosz, John Heartfield, Johannes Baader, Hannah Höch e Raoul Hausmann e a Colonia Max Ernst, scoprono nel fotomontaggio la nuova arma per intervenire nella Großstädt rompendo, come la poesia sonora e visiva, «le barriere dei generi letterari e artistici» (De Micheli). Infine a Parigi, soprattutto con l’arrivo di Tzara nel 1919, le azioni dadaiste si propagheranno attraverso l’impegno critico e letterario di Louis Aragon, André Breton e Paul Eluard.

Ora queste e molte altre personalità – da Walter Serner a Edgar Varèse, da Kurt Schwitters a Theo van Doesburg, da Christian Schad a Philippe Soupault, compresi gli italiani Julius Evola, Aldo Fiozzi, Gino Cantarelli e Othello Rebecchi – li troviamo nella grande sala al piano terra del Kunsthaus nella mostra Dadaglobe Reconstructed curata dalla storica dell’arte Adrian Sudhalter. L’esposizione consiste nella «ricostruzione» del progetto editoriale Dadaglobe di Tzara e Picabia, purtroppo mai concluso e datato 1920, che si proponeva di dimostrare la diffusione mondiale del movimento. A cinquanta artisti, scrittori e poeti si richiedeva una fotografia e un loro scritto, disegno o collage, che solo dopo anni di paziente ricerca della curatrice, sono stati ricomposti nel catalogo (Scheidegger & Spiess) sulla base di una bozza di impaginato di Tzara. Dadaglobe con le sue duecento opere di piccolo formato su carta tra fotografie, disegni, fotomontaggi e collage, può a buon diritto essere considerata l’opus magnum del Dadaismo e il ritrovamento più importante non solo per la storia delle Avanguardie artistiche ma, più in generale, per la conoscenza della società e della cultura tra le due guerre in Europa. «La storia di Dadaglobe – ha scritto in catalogo Sudhalter – è un mistero storico-artistico di primo ordine. Mentre l’oggetto stesso (il libro non realizzato) scompare, lascia molte tracce nel suo percorso»: quelle abilmente ritrovate nelle collezioni del Kunsthaus zurighese, di Felix Baumann e Hans Bollinger, ma soprattutto del milanese Arturo Schwarz.

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Il Cabaret Voltaire oggi

Rispetto alla precedente mostra Dadaglobe (1994) che sempre il Kunsthaus dedicò a Dada ventidue anni fa e che Arbasino biasimò perché «alla pochezza delle opere ’che si salvano’ si accompagna come periferia o cimitero un immenso archivio di provocazioni disinnescate e scadute», la nostra conoscenza del progetto di Tzara è cambiata «fondamentalmente», come sottolinea Cathérine Hug in catalogo. Quelle «carte ingiallite, muffe e forfore, una grafica furbetta ma bambinesca» ci raccontano il desiderio di diffondere al mondo un’avventura estetica unica che nel 1921, come scrisse Roman Jakobson, avviene nell’Europa «trasformata in una molteplicità di punti isolati per i visti, le valute, i cordoni di ogni tipo», nonostante «lo spazio ridotto a passi da gigante per via della radio, del telefono e dell’aereo» e nel quale i libri e le immagini appaiono assediati da ogni genere di fanatismo. Una realtà che ci sembra di riconoscere nel nostro quotidiano ed è, forse, la ragione per la quale Dada incuriosisce e ancora attrae.

 

 

 

 

 

SCHEDA

Nel 1916, gli artisti in esilio si ritrovarono nel cuore del Niederdörfli, un quartiere del centro storico zurighese. A pochi metri dall’abitazione di Lenin, nella Spiegelgasse 1, Hugo Ball e la futura moglie Emmy Hennings aprirono il Cabaret Voltaire. L’esordio ufficiale del movimento si fa coincidere con il 5 febbraio 1916, giorno in cui veniva inaugurato il Cabaret Voltaire, fondato dal regista teatrale Hugo Ball. Fino al 18 luglio seguirono poi 165 giorni di festa (ognuno dedicato a uno dei 165 dadaisti). La kermesse dada può contare su molte location. Il Kunsthaus Zurich ospita (visitabile fino al 1 maggio) la mostra «Dadaglobe Reconstructed» con oltre 200 opere e testi spediti a Tristan Tzara nel 1921 da artisti di tutta Europa (progetto che si arenò per mancanza di fondi e per motivi personali). Il Museo nazionale Zurigo, con «Dada Universale» punta (chiude il 28 marzo) sulla portata universale dell’avanguardia, ripresentando alcune sue celebri «icone». Fino all’8 maggio, il Museum Haus Konstruktiv propone «Dada anders» dedicata alle esponenti femminili del movimento: Sophie Taeuber-Arp, Hannah Höch ed Elsa von Freytag-Loringhoven, mentre ha appena aperto i battenti (c’è tempo fino al 17 luglio) al Museo Rietberg un itinerario speciale: «Dada Afrika». Per la prima volta, si affronta una tematica ancora poco approfondita, il confronto dei dadaisti con l’arte e le culture extraeuropee.