Cinque morti e almeno venti feriti, fuoco contro il primo ministro, e alla fine la tregua. In Yemen ieri si è sfiorato il colpo di Stato: gli scontri tra ribelli Houthi e forze governative ha raggiunto le porte del potere costituito nella capitale Sana’a, da mesi quasi del tutto sotto il controllo della minoranza sciita.

In realtà il cessate il fuoco era stato annunciato già all’alba di ieri, per diventare però effettivo solo ore dopo le violenze. Per tutta la mattina la capitale è stata teatro di scontri a fuoco tra esercito e milizie Houthi, a poca distanza dal palazzo presidenziale: spari hanno avuto come target il convoglio su cui viaggiava il primo ministro Bahah, di ritorno da un meeting con il presidente Hadi e un rappresentante del gruppo politico degli Houthi, Ansarallah. Immediata è giunta la smentita da parte dei ribelli che negano di aver attaccato il premier, ora nascosto in un luogo segreto. Poco dopo i ribelli sciiti hanno assunto il controllo della sede della tv e dell’agenzia di Stato e le violenze si sono estese al resto della capitale.

A provocare gli scontri sarebbe stata la chiusura da parte governativa di alcune strade intorno al palazzo presidenziale a seguito del rapimento del capo di gabinetto e segretario generale del dialogo nazionale, Ahmed Awad bin Mubarak, rivendicato dalle milizie Houthi.

Lo Yemen vive una vera e propria guerra civile che, come per altri fronti aperti nella regione, si traduce nella guerra per procura tra asse sciita e asse sunnita, tra Teheran e Riyadh. L’Arabia Saudita – che non ha mancato di intervenire per distribuire ufficiosamente poltrone del paese dopo la caduta del dittatore Saleh, sciita ma strettamente legato ai Saud – accusa l’Iran di essere il manovratore dei tentati golpe degli Houthi, che oggi si trovano a combattere sia il potere centrale che al-Qaeda, responsabili di frequenti attentati (l’ultimo a inizio gennaio, una bomba esplosa di fronte ad una caserma della polizia ha ucciso 30 neo-poliziotti).

I ribelli Houthi hanno assunto il controllo della capitale Sana’a a settembre per espandere poi la propria influenza verso il centro e l’ovest del paese, aree a predominanza sunnita. L’accordo siglato a settembre tra le varie fazioni politiche (compresa la minoranza Houthi) per la formazione di un governo di unità e la successiva nomina di un nuovo premier ad ottobre non ha calmato le acque, ma anzi ha inasprito ulteriormente le tensioni figlie della discriminazione politica che gli Houthi ritengono di subire sotto l’ombrello saudita. Lo stesso rapimento di Mubarak, ha fatto sapere la leadership sciita, è un chiaro messaggio alle istituzioni, impegnate in queste settimane nella redazione di una nuova costituzione che gli Houthi non approvano.

Le richieste degli Houthi sono chiare, ripetute ancora una volta dopo il rapimento di Mubarak: poltrone all’interno del nuovo governo di unità, inclusione della minoranza nelle istituzioni e fine del monopolio politico sunnita. Richieste a cui si aggiunge il no alla proposta (sostenuta da Riyadh) di trasformare lo Yemen in uno Stato federale, diviso in sei entità amministrative: gli sciiti a nord e le tribù sunnite al centro, l’area più ricca di petrolio.

A favore della minoranza Houthi stanno le misere condizioni di vita della popolazione (il 50% vive sotto la soglia di povertà) che potrebbe garantire alla ribellione maggiore sostegno, soprattutto a fronte dei successi militari dei ribelli: in pochi mesi gli Houthi hanno occupato la capitale e aree strategiche come la città portuale di Hodeidah sul Mar Rosso, da cui passano le petroliere dirette in Europa. Da parte dell’esercito governativo la resistenza è debole, vuoi per l’incapacità di fronteggiare militarmente i ribelli, vuoi per la collaborazione stretta tra gli sciiti e alcune forze fedeli all’ex presidente Saleh.

L’attuale situazione rende lo Yemen ingovernabile. Lo si legge nella parole di ieri del ministro dell’Informazione, Nadia Sakkaf: «Nessun partito ha oggi il controllo della città. Parte dell’esercito risponde al presidente Hadi, ma altri in uniforme non obbediscono ai loro superiori. Sono molto preoccupata: potremmo assistere alla nascita di uno nuovo Yemen».