Stefania Miscetti, architetto e fondatrice dello Studio Stefania Miscetti, galleria con sede in Roma, in un ex spazio industriale in via delle Mantellate a Trastevere, a partire dal 1990 ha dato l’opportunità ad artisti italiani e stranieri di realizzare progetti inediti appositamente ideati per la città di Roma. Tra gli altri, ha portato in città artisti come Marina Abramovic, Nancy Spero, ORLAN, Alfredo Jaar, William Kentridge, Doris Bloom, e soprattutto Maria Lai, attualmente in mostra presso lo Studio con una personale, Pagine, che rimarrà aperta fino alla fine di aprile.

Tra le iniziative di cui è stata ideatrice, SHE DEVIL, rassegna di videoarte al femminile, ormai giunta alla sua decima edizione, è stata presentata oltre i confini della galleria: da Bucarest, al MACRO di Roma, a Belfast, a Bologna, a Lipsia e come ultima tappa a Vilnius.

Nonostante Stefania Miscetti abbia seguito in egual modo il percorso di artisti di entrambi i sessi, questa conversazione è volta a riflettere esclusivamente sul ruolo che le donne rivestono nel mondo dell’arte.

AV: Alcuni anni fa, riflettevi sulla strana difficoltà delle artiste donne di trovare rappresentanza in un mondo dell’arte fatto da storiche dell’arte, curatrici, giornaliste e galleriste, ricordavi come ti divertissi a presentare le giovani artiste solo col loro cognome e la tua diffidenza nei confronti delle ondate di richieste delle loro opere, quando indotte da fattori di mercato.

Da quando hai scritto queste considerazioni sono passati un po’ di anni. Pensi che ci sarà una crescita esponenziale di interesse del mercato dell’arte verso le artiste in questo momento particolare in cui femminismo non è più parola vietata, ma anzi dà segni di rinascita? E pensi che questo interesse del mercato, se ci sarà, influenzerà il prodotto delle artiste?

SM: Secondo me è necessario fare una distinzione molto netta tra come i collezionisti e il mercato consumano le opere create da donne e quello che in realtà le artiste indagano, cercano, investigano, producono. Le donne hanno sempre lavorato sul tema del corpo, e continuano a rifletterci ancora oggi, in maniera indipendente e con sfumature diverse. Quello che fa il mercato è un’altra cosa, che poi è un consumo ciclico. Ci sono diverse ondate di temi sociali e politici che vengono usati e sfruttati: i migranti, le donne, il clima… Nella mia esperienza di SHE DEVIL, che mi permette di avere contatto ripetuto con le curatrici, ci sono stati alcuni anni in cui persino il tema dello sguardo femminile veniva messo in discussione. Perché io ero vista come la vecchia guardia che aveva la necessità di porre l’accento su certe questioni, e io ho questa necessità, l’ho sempre avuta, non per escludere, ma per includere.

Nel corso di questi dieci anni, anche le curatrici delle artiste, giovani e non, si sono accorte che questo tenace e continuo riferimento non era un aggrapparsi ad una vecchia tendenza, non era un autoescludersi, ma la necessità di ribadire quelle cose che, pur essendo date per acquisite, devono essere continuamente messe in esercizio perché senza di esso vengono dimenticate.

AV: Nei vent’anni di berlusconismo è stata dura?

SM: Una grande opportunità di riflessione. Una delle prime edizioni di SHE DEVIL, aveva come logo delle manette aperte, a indicare la volontà di autoaffermazione, l’autocoscienza come pratica quotidiana, senza le quale è inutile lanciare slogan e sventolare bandiere.

AV: A proposito di SHE DEVIL, mi dici che tipo di produzione hanno sviluppato le artiste con l’uso del video, come il mezzo le ha condizionate e che legame ha questo tipo di produzione con la ricerca che spesso hanno fatto le artiste donne sulle proprie radici, sulla propria storia o sul proprio corpo?

SM: Ci sono temi che appartengono più profondamente alle poetiche delle artiste. Tra questi, negli ultimi sessant’anni, uno dei più forti è quello che riguarda l’indagine intorno all’involucro più prossimo, il corpo. È un corpo esaltato, usato, alcune volte esibito quasi a voler rompere ed infrangere quei limiti che troppo spesso sono stati imposti e di conseguenza, forse inconsapevolmente, accettati dalle donne stesse. Nancy Spero, Yoko Ono, Marina Abramovic, ORLAN, che io considero le antesignane, fino ad arrivare a Doris Maninger con sono qui [un esercito di donnacce nude], hanno fatto del proprio corpo o del corpo della donna in generale, un vero e proprio strumento attraverso il quale trasformare l’esperienza profonda ed individuale in patrimonio di tutti.

Tornando a SHE DEVIL, il video, secondo me, è l’espressione più vicina ad una scrittura più intima e personale, quasi un diario, penso a Sylvia Plath, anche quando riflette su temi di rilevanza sociale e politica o rielabora miti arcaici.

Le giovani artiste stanno indagando una processualità per trovare il modo di usare la storia per andare avanti, per individuare altri punti di vista che tengano conto di tutto quello che c’è stato.

Questo è il primo decennio in cui l’arte raggiunge veramente tutti i climi e tutti i tempi: c’è una quantità di biennali, di fiere, di artiste e di artisti che vengono dai mondi nuovi – la Cina, il Sudamerica, l’Africa – che possono relazionarsi con quello che è il linguaggio dell’arte contemporanea così come è stata codificata in Europa e negli USA negli ultimi cento anni. Questi nuovi protagonisti possono usare questo linguaggio e allo stesso tempo essere legati alle proprie radici. Riusciremo tra molti anni a raccontare al meglio questa contemporaneità: come gli spostamenti in aereo anziché per mare o terra ci hanno donato una consapevolezza diversa del mondo, così la contemporaneità sta modificando la percezione del passato e del presente della poetica degli artisti.

AV: Che reazione produce la coscienza di questa contemporaneità tra mondi così diversi tra loro nell’arte delle donne?

SM: Parlando della condizione della donna oggi, il fatto di ricondurre l’uso di alcuni materiali ad uno specifico femminile forse non è più necessario. È soprattutto urgente ridefinire la propria identità tra le tante culture che sono per la prima volta a confronto, e giungere a una radice profonda, arcaica sicuramente, che trae origine dalle culture di provenienza e di appartenenza di tutte le artiste e più slegata da un presente contingente: la maternità, il rapporto con la natura, il relazionarsi con l’altro. È necessario ridefinire ed interrogarsi su un destino comune e sul ruolo dell’artista oggi, in un mondo in cui anche il corpo appare senza confini, grazie alla biotecnologia, l’identità di ognuno è più labile, e sempre più indefinito il confine sessuale. Il compito di fronte al quale si trovano le giovani artiste è molto difficile perché nel campo dell’arte, che sul piano ideale rivendica la libertà totale, ci troviamo continuamente di fronte a pericoli e trabocchetti. Come ricorda Nancy Spero “Ci sono molteplici istanze autocensorie, regole del gioco implicite, perimetri quasi invisibili eppure palpabili di quanto sia accettabile in un determinato momento. Se non sono imposti dallo Stato, come nei regimi repressivi, lo sono dal clima, per quanto variabile, del mondo dell’arte. Quindi arrivano i momenti di rottura. L’arte è sempre l’ultimo bastione della libertà individuale di espressione”.

AV: Nella rassegna SHE DEVIL ci sono artiste che fanno un lavoro più politico pur usando il proprio corpo o ambienti e oggetti del quotidiano?

SM: Fermo restando che per me l’utilizzo del corpo è sempre politico, ci sono opere nelle quali l’impegno civile è più manifesto. Ad esempio, Mary Zygouri, che ha partecipato alla seconda edizione di SHE DEVIL, nell’ultima Documenta ad Atene ha affrontato, con una performance molto coinvolgente dal punto di vista fisico, episodi problematici del passato della sua Grecia.

Silvia Giambrone d’altro canto indaga attraverso il proprio corpo la dimensione politica dell’intimità e la violenza che permea gli ambienti domestici, attraverso l’impronta che lasciano gli oggetti.

AV: Oltre alla rassegna SHE DEVIL hai fatto tanti altri eventi importanti, mi ricordo di Seven K-nights nel 2003- 2004.

SM: Attraverso Seven K-nights ho cercato di creare una rete tra diverse realtà disseminate sul territorio e le curatrici. Tra queste, alcune hanno raggiunto degli importanti traguardi: Cristiana Perrella è stata recentemente nominata Direttrice del museo Pecci di Prato e Dobrila Denegri è stata direttrice del Centro per le Arti Contemporanee di Torun (CoCA).

Tavole rotonde sono state organizzate anche nel contesto di SHE DEVIL. Credo moltissimo nell’incontro fisico come antidoto allo smembramento. Per me è un modo di dare continuità alla pratica femminile dell’incontro.

AV: Tu ti sei definita “un vassoio” spiegami cosa intendi.

SM: Sono affamata di arte e di quello che gli artisti comunicano e mi piace donare a me stessa e agli altri la loro opera, anche trasformando lo spazio della galleria per accogliere espressioni tra loro molto distanti, come le poesie e le opere di Patrizia Cavalli e le performance musicali di Erewhon, a cura di Daniela Cascella. Ho sempre cercato di offrire al pubblico, attraverso il mio lavoro e il mio spazio, progetti inediti appositamente ideati per la galleria, ultimo tra questi l’installazione Allegro non troppo di Bruna Esposito, artista a cui è stato recentemente dedicato un focus al MAXXI. Questa di Maria Lai è l’unica esposizione realizzata grazie al contributo di collezionisti, dopo tre mostre concepite e allestite insieme a lei.

AV: E sei anche uscita spesso dal tuo spazio.

SM: A partire dagli anni Novanta ho realizzato mostre presso musei e istituti di cultura stranieri, talvolta spazi non tradizionalmente adibiti al contemporaneo. Penso alle mostre di Adrian Tranquilli presso l’Oratorio dei Filippini e al MACRO, dove ha avuto luogo anche la personale di Alfredo Jaar, alle proiezioni del lavoro di Michal Rovner al Palazzo delle Esposizioni, dove sono riuscita a portare l’intera rassegna del Whitney Museum dei film di Yoko Ono.

AV: Tu hai sempre avuto bisogno di allargarti, di movimento, di scoperte di nuovi linguaggi. Nel 1994 avevi già proiettato il lavoro di Kentridge e Bloom, molto prima dell’affresco sul lungotevere…

SM: La proiezione a cui fai riferimento faceva parte di Projected Artists – Obiettivo Roma, un progetto durato due anni che ha letteralmente invaso lo spazio pubblico. Stanca di sentire il peso della storia e dei divieti che sembrano imposti a noi che abbiamo il privilegio di abitare in un museo a cielo aperto, ho coinvolto le istituzioni a partecipare a questa rassegna, che prevedeva la proiezione di opere di artisti contemporanei sui nostri monumenti: Paolo Canevari, Maurizio Pellegrin, Doris Bloom e William Kentridge, Yoko Ono e Nancy Spero, si sono trovati a dialogare con il Pantheon, San Giorgio al Velabro, Piazza Navona e Santa Maria in Trastevere.

AV: Prossimi progetti?

SM: È in programma la decima edizione di SHE DEVIL, e, in autunno, la seconda personale in galleria di Silvia Giambrone. Inoltre ho in mente un nuovo progetto pubblico, come sempre dedicato alla città di Roma.