Una vena sapienziale, è stato detto, attraversa la poesia di Angelo Gaccione, figura importante del nostro panorama culturale, una tensione etica prossima al proverbio; e questo è quanto mai vero nella sua ultima, recentissima raccolta, Spore (Interlinea, pp. 88, euro 12) introdotta da due brevi ma precisi e partecipati testi di Alessandro Zaccuri e Lella Costa. Zaccuri definisce quello allestito da Gaccione «un teatro sacro e profano assieme»: un teatro nel quale «non c’è figura e non c’è situazione che non venga presa ’per il verso giusto’, con effetti di straniamento che sconfinano non di rado nella rivelazione».

Molta vita, molti ricordi, aggiunge Lella Costa citando una celebre pagina di Rilke, precedono ognuno di questi componimenti: dunque molte presenze, molte assenze, molto sangue. E cos’altro è, la scrittura sapienziale, se non una scrittura che raccoglie e rielabora in senso, in significato, tutto ciò che si è vissuto? Ma senza pretesa di darne lezione, come non lo pretende Gaccione: no, il senso di un’esistenza può riguardare solo chi la vive, ed è solo della propria vita che si può pretendere di dare testimonianza.

E tuttavia la testimonianza di un’esistenza rappresenta sempre un valore in sé, sembra volerci dire Gaccione: tanto per chi la rende, perché ogni vita è una caccia al tesoro, perché ogni esperienza ha bisogno di essere assimilata, dopo essere stata vissuta; quanto per chi l’ascolta, per il fatto di potervisi riconoscere.

NELLE SESSANTASEI POESIE della raccolta, tutte senza titolo bensì solo numerate, i riferimenti al sacro sono talvolta espliciti, come nella poesia n° 25: «Barabba! Barabba!/gridava la folla./È sempre l’innocenza/che spaventa il delitto». O nella poesia n° 21: «Mise la fiducia nelle sue mani./Mani che confortavano pene,/mani che asciugavano lacrime./Prima che le inchiodassero». Ma più spesso sono solo adombrati, sono il frutto di una postura più che di una deliberazione, e di una tensione irriflessa, dell’anima, piuttosto che di una volontà di circoscrivere, di limitare.

Come ad esempio nella bellissima poesia n° 30, nella quale ritroviamo un’eco di certi versi di David Maria Turoldo: «Quel che ci mancò fu l’affetto./Di amore ne avevamo fin troppo./Sempre rimpiangeremo,/fino alla fine dei giorni,/una semplice carezza sul viso,/una parola buona». Oppure come nella poesia n° 50: «Era stata così svilita, che la parola amore/gli suscitava fastidio./Non la pronunciava più./È proprio ciò che manca, ad essere tanto diffuso./Come il nome di Dio,/sulla bocca di tutti». Altre volte ancora il tono è tutto solo umano, tout court, come quando leggiamo: «Se le lacrime sono state troppe,/troppi sono anche gli anni./Si ha l’età del dolore,/non c’è altra misura» (poesia n° 51).

PROVENGONO DAL PASSATO, le poesie di Gaccione, dal punto di vista della vena che le muove; e può capitare che a questa vena corrisponda una forma di disillusione, di ripiegamento. Ma non sempre: ed è soprattutto qui, quando sulla disillusione prevale lo sguardo sul presente e sul futuro, che prende forma il loro valore di testimonianza, sapienziale. Qui, il loro valore diventa perfino politico, in versi come questi: «Il tempo del dolore è ora,/guardatelo diritto in faccia./Tutti abbiamo saputo,/tutti eravamo desti./A nessuno è dato dormire,/il sonno infame dei giusti».

In questi casi, il teatro di Gaccione sembra quasi inverare il contrario di quello che scriveva Italo Calvino di «Isidora», una della sue Città invisibili: non sono più i desideri a diventare ricordi, ma i ricordi a trasformarsi in desideri.