Giorni fa un editoriale del Financial Times (non firmato, la linea del giornale) spiegava che le politiche monetarie non bastano più, mentre il capo dello staff di Merkel proponeva di fare più deficit. Forse siamo alla fine di una rivoluzione cominciata negli anni Sessanta negli Stati Uniti che dalle aule universitarie è passata alla politica. La svolta chiuse definitivamente con gli anni del New Deal e portò gli economisti, figure marginali nell’elaborazione delle politiche pubbliche, nelle stanze del potere.

Binyamin Appelbaum, dell’Editorial Board del New York Times ha scritto un libro, The economist’s hour, False prophets, free markets and the fracture of society (Little Brown &Co., 2019) che racconta come sia nata l’idea che i mercati, lasciati liberi dalle regole e dall’intervento del settore pubblico, avrebbero generato crescita e benessere. Non è andata proprio così: il reddito destinato al lavoro da allora cala in maniera costante e le diseguaglianze crescono. «Se dovessimo individuare una figura chiave, anche per la sua notorietà, possiamo parlare di Milton Friedman, ma gli economisti che spingono per privilegiare le politiche monetarie, per il ritiro dello Stato sono molti. – afferma Appelbaum – Il mio libro è una storia della reazione al keynesismo che si sviluppa attraverso gli anni Settanta durante la quale gli economisti che riponevano una fede cieca nel mercato guadagnarono enorme influenza sulle politiche pubbliche. Volevo raccontare quella storia perché credo che si sia conclusa nel 2008. Oggi il modello esistente mostra i suoi limiti anche a chi non voleva vederli. Proprio come negli anni ’30 e all’inizio dei ’70 siamo in un periodo tumultuoso e di perdita di fiducia nel modo in cui abbiamo gestito le cose, nelle regole che ci siamo dati. Sappiamo quel che non funziona, non sappiamo come sostituirlo».

Il primo caso di occupazione dello spazio pubblico da parte degli economisti coincide con l’abolizione della leva…
Nel dopoguerra, la leva divenne parte della normalità della vita americana, «andare» militari era un dovere civile e patriottico. Dai primi ’70 c’è chi comincia a sollevare dubbi sul modo in cui la potenza militare viene usata, la ricchezza media cresciuta implica che chi parte militare lasci spesso un buon lavoro. Poi c’è l’opposizione alla guerra del Vietnam e il numero di persone chiamate alle armi che cala progressivamente, facendo crescere l’idea di un processo di selezione ingiusto (gli studenti a casa, i poveri al fronte). Quel che genera la scelta di abolire la leva non è la dinamica sociale. Chi abolisce la leva è però l’amministrazione Nixon, basandosi sulla teoria economica. All’inizio degli anni Sessanta, alcuni economisti sostengono che la leva sia inefficace perché toglie energie alla società: Elvis Presley dovrebbe cantare e produrre reddito invece di fare il servizio militare (e con lui operai, professionisti o chi altro). Chi invece vuole lavorare per l’esercito potrà farlo e non dovrà essere addestrato ogni anno. In pratica il mercato deve decidere chi farà il militare e chi no. Nixon sposa la teoria dell’economista Walter Oi (cieco, dettava le formule alla moglie), e crea un commissione per studiare il problema. Fu così che gli economisti ebbero la meglio sui generali.

Si è trattato di un vero cambio di filosofia…
Già. Si possono immaginare diversi modi per organizzare una società. Si può immaginare che il servizio militare sia in qualche modo un dovere civico, oppure la condivisione di una responsabilità (se si va in guerra, ci andiamo tutti). Invece si mette al centro l’efficienza economica. Questa decisione e questo modo di pensare hanno successo in quegli anni perché dopo il boom post-bellico c’è la stagflazione (crescita negativa e inflazione alta) e la percezione diffusa che servano nuove idee su come governare l’economia. Poi ci sono le dinamiche sociali: la parte conservatrice della società americana ha ritenuto che la permissività che caratterizzava le società occidentali, la spinta per i diritti civili e una maggior regolazione dell’economia stesse ridimensionando le prerogative della proprietà privata.

Così ci fu una reazione per ripristinare la centralità della proprietà e della ricchezza, con un certo successo. In questo contesto, gli economisti ebbero la funzione di fornire le idee che servirono per dare forma e giustificare questa rivoluzione. E sono stati enormemente persuasivi nel farlo. A fine anni Ottanta, il collasso dell’Urss portò alla radicalizzazione di questa idea assoluta di mercato. Niente produce successo come il successo, e così i sostenitori dell’idea che abbassare le tasse sia una formula per generare crescita economica guadagnano consensi, i governi si imitano l’un l’altro, quel che viene fatto da Thatcher o la privatizzazione delle pensioni pubbliche di Pinochet diventano modelli. Con il tempo sembra uno sforzo organizzato, ma la verità è che quello sforzo arriva quando le idee hanno già vinto.

Si tratta di idee sposate anche dalla sinistra di governo per tutti gli anni Novanta e fino a oggi (o quasi).
Il primo ministro britannico Benjamin Disraeli diceva: «Politiche di sinistra, politici di destra», intendendo che i conservatori erano più forti che mai quando sceglievano di implementare politiche liberali. Negli anni Novanta e Duemila è accaduto il contrario. Una parte importante della storia che racconto riguarda il sostegno a certe politiche da parte di coloro che avrebbero dovuto avversarle. Clinton istituzionalizzava e cementava i risultati delle amministrazioni repubblicane, Mitterrand è stato cruciale nel farla finita con il socialismo tradizionale francese e non parliamo di Blair. Le idee neo-liberali in materia economica erano egemoniche, un monolite senza alternative.

Come mai? Darei due risposte. Negli anni Settanta, la fiducia della sinistra nelle proprie idee in materia economica svanisce. Il libro narra anche la vicenda di Juanita Kreps, prima donna e prima economista a diventare Segretario al commercio. Si dimise e lasciò anche la cattedra di «economia keynesiana» all’università perché, disse, «non saprei più cosa insegnare agli studenti». Gli intellettuali di sinistra si arrendono alla narrazione semplicistica della destra che spiega: «Lo Stato si deve fare da parte e mille fiori sbocceranno». Quel discorso funziona, è semplice, parla agli individui e alla loro voglia di riuscire, mentre l’alternativa è un discorso complesso.

Qualcosa sta cambiando se i grandi quotidiani economici chiedono politiche fiscali e non più monetarie e l’artefice delle politiche di Clinton, Robert Rubin, scrive un saggio contro i parametri rigidi (stile Maastricht) assieme a Stiglitz. Con Biden cosa ci si deve aspettare?
Il team Biden non è del tutto omogeneo. Alcuni dei suoi consiglieri vengono da una generazione cresciuta negli anni Ottanta e propongono una versione moderata delle idee monetariste. Ci sono poi consiglieri più giovani che hanno un approccio diverso, secondo cui il grande tema è come la ricchezza prodotta viene distribuita. Un’economia che cresce ma nella quale poche persone raccolgono la maggior parte dei benefici non può essere l’obbiettivo delle politiche pubbliche. Per fare un esempio, costoro ritengono che la crescita dei salari che stagnano da decenni sia cruciale perché una più equa distribuzione della ricchezza è la base per una società più florida.

Al fondo di tutto, credo che il principale problema, dopo tanti anni di certezze dogmatiche su inflazione, monetarismo e tasse sia quello dello storytelling. La destra continua ad avere presa sull’immaginario con la sua storia semplice per cui lo Stato è il problema e il mercato la soluzione. C’è una storia alternativa, per cui l’idea che Stato e mercato siano forze contrapposte è intrinsecamente assurda, dobbiamo governare i mercati e la questione è come lo facciamo nel migliore dei modi. Ma i democratici e gli economisti che li sostengono devono migliorare molto nel raccontare la loro storia e molto del successo dell’amministrazione Biden in materia di economia, credo, si baserà proprio sulla loro capacità di farlo.