All’ombra dei grattacieli di vetrocemento del centro di Los Angeles il cantiere del Da Vinci è a buon punto. Sulle fondamenta di cemento, traforate di archi, si erge la struttura in legno e compensato che ospiterà i 526 appartamenti «condo» con target giovani professionisti, quelli che – differentemente da molti loro genitori – stanno lasciando sempre più numerosi sobborghi e i quartieri dormitorio della periferia per scegliere di vivere vicino agli uffici del centro dove lavorano.

La tendenza, auspicata da molti urbanisti, inverte il white flight: i ceti medi bianchi, tradizionalmente, abbandovano i centri urbani delle città americane per la «sicurezza» dei suburbs. Nel nuovo pensiero urbanistico, invece, la maggiore densità ottimizza le risorse, promuove il «sense of place» e l’atmosfera «cittadina» di cui tanto si lamenta l’assenza nelle impersonali distese costellate di anonimi shopping center. Per anni Los Angeles e i suoi cloni, come Phoenix, Las Vegas, San Diego, Houston (e un numero sempre maggiore di agglomerati para-urbani in giro per il mondo) sono stati laboratori di «sprawl» – l’estesa città suburbana. Oltre che alienazione a LA, in particolare un modello che ha contribuito a conflitti sociali periodicamente esplosivi come le rivolte del ’65 e del ’92 esacerbate da un «apartheid» urbano che isola classi ed etnie in un tessuto «balcanizzato» con enormi dislivelli di benessere e povertà e una privatizzazione ad oltranza del territorio. È una banale verità: a Los Angeles gli spazi urbani pubblici sono limitati alle spiagge e le freeway, mentre la deambulazione pedonale è attività insolita, se non sospetta.

Ma dopo anni di autocoscienza urbanistica le cose stanno cambiando e la nuova tendenza è, appunto, l’abbandono della città orizzontale a bassa densità, col pendolarismo obbligato, la dipendenza dall’automobile e insostenibilità energetica.

Lo sprawl è diventato sinonimo di distopia. Non è stata una facile conversione in una città fondata su sviluppo illimitato e una mitologia individualista incarnata dall’iconica e ubiqua villetta monofamigliare, ma negli ultimi anni la densità sempre rifuggita come spregevole retaggio collettivista, è diventata un pregio e il condominio, quell’oggetto estraneo e disprezzato, è improvvisamente assurto a status symbol. Soprattutto nel centro della città che, nel giro di pochi anni, è passato da quartiere fatiscente per senzatetto e immigrati a mèta ambita delle «classi urbane», giovani professionsiti e creativi millennial che hanno ricolonizzato aree ex-industriali nella classica dinamica della gentrification.

Le generazioni post-subprime difficilmente possono permettersi i «lussi» immobiliari dei loro padri (la casa propria) e sono cotretti ad affittare, alimentando un boom edilizio a base di complessi «mixed-use»: comprensori con 3-4 piani di appartamenti o mini loft e negozi a piano terra per agevolare consumi a km zero. Il progetto prevede di introdurre altre attività «urbane» finora sconosciute a Los Angeles – la spesa a piedi ed eventualmente, per i più avventurosi, il passeggio e gli incontri per strada. Fra i molti comprensori di recente edificazione spiccano quelli del costruttore Geoffrey Palmer. Una mezza dozzina di casermoni in stile «toscano», ognuno battezzato con un esotico e altisonante nome italiano. Nel giro di pochi anni sono spuntati il «Medici», «l’Orsini», il «Visconti» e ora il «Da Vinci» – ognuno con portinaio/concierge, palestra, piscina, area wi-fi, business center e ogni necessaria attrezzatura per il lifestyle neo-urbano. I complessi sono subito stati ribattezzati «tuscan fortress» dalla cittadinanza per gli imponenti bastioni con cui si affacciano sui marciapiedi, sorta di homage a un’idea disneyiana di fortezza medicea.

Ora, il kitsch a Los Angeles è un marchio di fabbrica. Le aspirazioni elementari dei suoi abitanti hanno sempre trovato esuberante espressione architettonica in quelli che Rayner Banham descrisse impareggiabilmente come i plains of Id. E se la città è in gran parte rappresentazione formale delle recondite fantasie dei suoi abitanti, la sua stretta parentela con il cinema ha stimolato un eclettismo disinibito che vede ville tudor a fianco di chateau francesi e piantagioni coloniali rivisitate in forma di comprensori spagnoleggianti. L’ultimo grido, in fatto di mode architettoniche, è lo stile simil-toscano che metabolizza in abitazioni, supermercati o distributori di benzina, un ideale approssimato di scenografia rinascimentale.

Nel caso delle fortezze residenziali di downtown, qualcuno si è però chiesto, in assenza di milizie imperiali o mercenari papali, contro chi dovrebbero offrire difesa le imponenti mura «neo-tuscan» che sembrano piuttosto erigersi contro gli abitanti del vicino quartiere messicano e i barboni che usano i vicini cavalcavia della freeway come accampamenti di fortuna.

Le «fortezze toscane» di Los Angeles sono così venute ad assumere la valenza di fortificazione dei nuovi abitanti contro i recidivi lumpen non ancora rimossi dalla gentrificazione. Soprattutto perché, oltre alle balaustre «rinascimentali» in cemento stampato, gli archi «mediterranei» e la tinteggiatura rigorosamente terra di Siena, gli edifici sono stati dotati di ponti con i quali accedere da un palazzo all’altro, senza dover prendere l’ascensore e attraversare la strada.

L’idea dei pontili rinascimentali per sorvolare potenziali «incontri spiacevoli» nelle strade sottostanti non è piaciuta ai membri della commissione pianificazione del comune che li hanno ritenuti contrari alla rivitalizzazione della vita urbana auspicata dal piano regolatore. La Central Area Planning Commission ha respinto il progetto sostenendo che nella nuova Los Angeles «la vita pedonale si deve svolgere sui marciapiedi, non su sopraelevate private». Il costruttore ha replicato che i passaggi pedonali elevati non sono ponti elevatoi che vogliono evitare i «barbari» del quartiere, ma una semplice comodità che permette ai residenti di farsi visita a vicenda, aggiungendo peraltro che il modo migliore per deviare da «incontri sconvenienti» è di evitare preventivamente di esporli a pericoli.

Alla fine, i ponti sono stati autorizzati ma a molti è rimasta la netta impressione di una città multilivello che assomiglia più alla distopia verticalizzata di Blade Runner che all’ideale di armonia pedonale auspicata dagli amministratori compreso l’illuminato sindaco obamiano Eric Garcetti. Un episodio che ha svelato, dietro il colore ocra della progressista «toscanizzazione» le solite tinte arcigne della crescente diseguaglianza dell’economia americana che continua – come ai tempi della white flight – a esprimere implacabili demarcazioni urbane.

Il più consapevole (della legge della gentrification) è stato forse l’homeless interpellato da un giornalista nel sottopassasggio che, osservando i ponti in via costruzione, ha dichiarato laconico: «Lo sapevamo già che quando arrivavano questi noi dovevamo smammare».