Se c’è uno stile che da alcuni anni a questa parte sta godendo d’una rivalutazione sempre più vivace, questo è l’art déco. Le persone aggiornate, fino a non molto tempo fa, lo tenevano in una considerazione non molto maggiore di quella affettata da Gozzano per le chincaglie di Nonna Speranza (specie in Italia dove alcuni di questi artisti dovevano anche scontare delle imbarazzanti connivenze politiche), sicché i lavori di un Chini o di un Andlovitz potevano trovarsi non solo presso antiquari ma anche in bottegucce di assai minore rango. Oggi, invece, prodotti di tal genere sono ricercati e studiati, come fanno fede le molte mostre dedicate all’argomento, ultima questa al Forte di Bard (Aosta), Il déco in Italia L’eleganza della modernità, curata Francesco Parisi, aperta ancora fino al 10 aprile.

Ho detto stile, dovevo parlare di gusto, ché lo stesso nome con cui si suole definirlo è un sostantivo di comodo, legato all’occasione storica del suo trionfo, cioè a quella famosa Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes che si svolse a Parigi nel 1925. Ora, si sa, simili esposizioni, nate con l’auspicio di esibire tutto quello che le moderne arti industriali potevano offrire in termini di decorazione, erano tutt’altro che rigorose nella scelta degli oggetti, dal cui orizzonte era escluso soltanto quanto riproducesse o imitasse le forme tradizionali, sicché una certa porosità doveva essere già intrinseca nel termine art déco nel momento stesso in cui venne coniato; e ciò anche a voler prescindere dagli esiti italiani, inclini più di altri alla koinè.

Il nostro déco, infatti, come già era stato del liberty, variante nostrana dell’art nouveau, trovò la sua individualità nell’averne, appunto, molte, «una polisemica versione italiana – scrive il curatore – che trova le sue origini, come era accaduto per il modernismo, nel tipo di formazione della maggior parte degli artisti dediti alle arti decorative che per la maggior parte provenivano dal mondo della decorazione di professione e quindi da un apprendistato tradizionale su cui innestavano, nelle specifiche declinazioni delle rispettive scuole regionali, nuove sperimentazioni formali e prelievi di impronta straniera». E se in una mostra di qualche anno addietro a Forlì, Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia, s’era voluto far risaltare, sugli elementi particolari, i motivi e i temi comuni, in questa l’impressione è che si sia cercato di dar conto piuttosto della varietà dei suoi esiti, il che, se rende l’orientamento un po’ meno facile allo spettatore acerbo, offre per contrappeso a chi ami questo genere di arte delle golosità uniche, quali, per esempio, i due Paesaggi marini — quasi scorci fantastici visti dall’oblò del Nautilus — di Piero Persicalli, un artista recentemente riscoperto in una mostra romana dalla Galleria di Simone Aleandri.

Guido Andlovitz, “Vaso delle Legioni”, 1927 ca., coll. Antonello

Come in Europa, i prodromi dell’art déco sono da ricercarsi nell’opera di Josef Hoffmann, così i primi balbettii del nuovo linguaggio s’ebbero qui da noi alle mostre della Secessione romana, tra il 1913 e il 1916. Nelle sale iniziali, dedicate alle esposizioni di Monza del ’23 e del ’30 e a quella parigina del ’25, ammiriamo due superbi pezzi di Francesco Nonni, Figura di danzatrice e Figurina di donna con ventaglio, piuttosto vicini a certe delicate statuine d’un eguale dionisismo decorativo che s’andavano producendo in quegli stessi anni a Vienna negli studi della Wiener Werkstätte, e un vaso di Guido Andlovitz a motivi floreali, misti, però, a padiglioni sospesi, esotici uccelli e altri motivi da cineseria rococò, già precedentemente ripresi in Austria e Germania da artisti come Fritz August Breuhaus o Dagobert Peche.

Sono piuttosto certe atmosfere tra metafisico e favoloso, con punte di ruralità trasognata (non aveva forse D’Annunzio, che di questo genere di sensibilità fu da noi il patrono, suggellato il complesso delle sue opere teatrali col titolo Tragedie, Sogni e Misteri?), a costituire, almeno in un primo momento, gli accenti nazionali di questo gusto: lo dimostrano i pomari di Galileo Chini (Foresta e volatili), sui quali sembra vibrare ancora il canto di Mignon «Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn?», le gazzelle assetate di Giovanni Guerrini e le ritorte valve marine di Vittorio Grassi. Peculiarità poetiche che forse non celavano altro se non un ristagno di simbolismo, come nella Spiga di Alberto Gerardi, splendida per sé stessa, ma nella quale non fatichiamo a trovare una volontà di rendere plastico l’anelito solare di cui si fa simbolo; e così ne La rondine di Prini o ancora nel Serafino sempre di Gerardi, un lavoro veramente magnifico, dove la figura dell’angelo è così delicatamente accennata da far pensare a un velo di mussola leggera appena increspato dal vento. Non sono gli unici riflessi del passato: l’Augusto Solari di Wildt ha qualcosa del gotico autunnale; i vasi di Ponti, sopra i quali le donne del Parmigianino sembrano dileguarsi fra stilizzate prospettive rinascimentali, un che di manierista.

Ma l’apporto più importante a questo linguaggio non doveva giungere dagli antichi maestri, bensì da quei loro discoli canzonatori che, invitati a partecipare alla grande esposizione del ’25, vi importarono, sotto la bandiera del futurismo, il loro gusto per le geometrie dinamiche. Le opere più gioviali di Balla e di Depero (come l’olio su arazzo Pappagalli gridanti, pappagalli e scimmia o le tarsie colorate Cavalieri e Ragnatele e ragni, esposti in mostra) sono accostabili al gusto déco almeno quanto certe cose d’artisti espressionisti quali Poelzig o Taut. Viene anzi da pensare che tutte le avanguardie, ogniqualvolta si misero a parlare in volgare, per così dire, anziché in latino, produssero esiti vicini a quelli del déco, quasi che esso ne costituisse l’istmo con la terraferma del vivere comune. E fu proprio questa sua piacevolezza di fondo a determinarne il successo nei salotti borghesi. Sicché alla vista del Ritratto di Luciana Valmarin di Sofianopulo, di Scene di vita romana di Bottazzi o di Armonie vespertine di Terzi non ci stupiamo se tutto s’armonizza, arredi, pose, vesti, colori, acconciature, con una perfezione d’intarsio.

È l’aspro latino del nuovo tradotto nella rotondità della volgar lingua. Lo troviamo declinato in varie specie d’oggetti lungo tutte le sale, dai vasi, alle illustrazioni dei libri, ai cartelloni pubblicitari, spesso innestato in quella tradizione nazionale di motivi attinti ora al Rinascimento ora al Settecento veneziano, capace di conferire a questi prodotti un’ulteriore voluttuosità a cospetto dei loro equivalenti stranieri. Se confrontati con quelli raccolti nel famoso Album degli anni Venti di Massorbio e Portoghesi (Laterza, 1976), florilegio del déco internazionale, il loro accento spesso più classico e depurato ce li fa apparire meno sfrenati e grifagni: un Biedermeier del déco. Il che sta forse alla base del loro successo contemporaneo. Non tutte le creazioni di un Ruhlmann o di un Peche possono intonarsi con qualsiasi ambiente, ma dove non apparirebbe deliziosa una scultura di Biagini o un’anfora di Gio Ponti.