«È un onore per noi ricevere lo sceicco della Primavera Araba» ha detto ieri il premier di Hamas, Ismail Haniyeh, prima di chinarsi a baciare la mano di Yusuf Qaradawi. Da parte sua il predicatore islamico, vicino ai Fratelli Musulmani e reso celebre in decine di Paesi arabi dalla tv satellitare del Qatar al Jazeera, ha ricambiato ringraziando il primo ministro, che gli ha conferito la cittadinanza onoraria palestinese, e regalando una raffica dichiarazioni contro Israele e a sostegno della ribellione armata sunnita contro il presidente siriano Bashar Assad. Poi è stato un tripudio di bandiere e di canti per Qaradawi, egiziano di origine e qatariota di adozione, giunto mercoledì sera a Gaza a capo di una delegazione composta da oltre 50 religiosi islamici di primo piano, provenienti da 14 Paesi.

Una visita parallela a quella del presidente Sheikh Khalifa bin Ahmed al-Dhahrani e di 14 deputati (sunniti) del Parlamento del Bahrain, accolta con grandi onori da Haniyeh, emerso numero due di Hamas dalle recenti elezioni interne del movimento islamico. Una nomina che ha consolidato il peso dei dirigenti di Gaza. Non è sfuggito il ruolo marginale, impercettibile, avuto ieri da Mahmud Zahar, uno dei fondatori di Hamas ed ex ministro degli esteri, escluso dalla direzione politica dopo aver perduto la sua battaglia personale contro il leader (riconfermato) Khaled Mashaal fautore della svolta “diplomatica” (rottura dell’alleanza con la Siria) che ha legato il movimento in modo ancora più stretto alla Fratellanza islamica che ha preso il potere in Egitto e Tunisia e che si prepara a fare altrettanto in Siria se e quando Bashar Assad sarà costretto a uscire di scena. E quando a Gaza arriverà il premier turco Erdogan, forse a fine mese (se gli americani non solleveranno altre obiezioni), il disegno di Meshaal sarà completo.

Con i suoi governanti pronti a tributare onori speciali ad ospiti stranieri importanti e sempre più numerosi, Gaza non è mai apparsa tanto lontana dalla Cisgiordania dove altri governanti restano “prigionieri”  di amici americani ed europei altrettanto interessati alle “sorti” del popolo palestinese. Parlare oggi  di “riconciliazione nazionale”, tra Hamas e il partito Fatah del presidente Abu Mazen, è semplicemente inutile.  Gaza si allontana, a causa prima di tutto dell’isolamento e del blocco imposto da Israele ma anche per le strategie dei suoi leader politici  e del nuovo ordine islamista che prevale nella regione. «Oggi siamo più vicini al Cairo che a Hebron (in Cisgiordania, ndr)», ci dice Asmaa al Ghoul, giornalista di Al Monitor ed una delle penne più ruvide di Gaza. «A quanto pare intendono ricostruire questo lembo di terra sul modello degli Stati del Golfo. I soldi li mettono gli emiri e i re, a cominciare da quello del Qatar, la volontà politica Hamas», aggiunge al Ghoul «e questo progetto è attuato senza spingere sull’acceleratore, creando prima di tutto le fondamenta di uno Stato che non sarà mai proclamato ufficialmente ma che di fatto esisterà». In questo contesto, prosegue la giornalista, l’islamizzazione di Gaza non sarà imposta con la forza ai cittadini ma si realizzerà quasi per inerzia, grazie alla creazione di istituzioni islamiche decisive in ogni aspetto della vita quotidiana.

Forse è esagerato affermare che sta nascendo lo “Stato di Gaza” accanto a quello di Palestina che oggi ha un seggio all’Onu. Nessuno però può negare che la Striscia si sta trasformando in un piccolo Emirato non dichiarato. E infatti sono proprio le petromonarchie, a cominciare dall’onnipresente Qatar, che stanno favorendo questa trasformazione, con investimenti e donazioni per centinaia di milioni di dollari nella costruzione di infrastrutture civili e nuovi edifici a molti piani. La Islamic Development Bank di Gedda, ad esempio, ha dato il via libera al finanziamento di progetti di ricostruzione a Gaza per un ammontare di 15 milioni di dollari. Il coordinatore dell’IDB, Refat Diyab, annuncia che diversi paesi del Golfo si preparano a stanziare fondi per lo sviluppo della Striscia. Il Kuwait ha fatto sapere che intende sostenere la costruzione della centrale elettrica Al-Wahshi di El-Arish, nel Sinai (Egitto) che fornirà energia anche a Gaza.

Il vero motore di questo processo però resta il Qatar che più di ogni altra petromonarchia ha deciso di investire a Gaza. L’impegno di re Hamad bin Khalifa al Thani, che ha visitato la Striscia lo scorso autunno, è di 400 milioni di dollari che finanzieranno 23 progetti riguardanti la costruzione di strade, reti idriche e dell’energia elettrica, strutture pubbliche, riabilitazione di spazi pubblici e così via. «Entro la fine dell’anno saranno completate 40 nuove strade», promette Naji Sarhan, vice ministro per la Pianificazione e lo Sviluppo, aggiungendo che sarà realizzato un nuovo complesso residenziale nel sud di Gaza, un nuovo ospedale ortopedico a nord che porterà il nome, naturalmente, di re Hamad del Qatar.

Tra i progetti più importanti c’è l’allargamento dei 25 km dell’“autostrada” Salah Eddin, che attraversa tutta la Striscia, e delle parallele “superstrade” Rashid lungo la costa e Karama ad Est. Tutti i materiali e macchinari necessari saranno forniti da Qatar attraverso i suoi rappresentanti a Gaza. Asmaa al Ghoul solleva qualche interrogativo. «Nessuno mette in dubbio l’utilità di questi progetti che, peraltro, faranno lavorare tanti disoccupati  – dice la giornalista – Gaza ha bisogno di infrastrutture specie dopo le distruzioni causate dalle offensive militari israeliane degli ultimi anni. Tuttavia il via libera ai lavori è stato troppo rapido, senza tenere conto del fatto che Gaza necessita anche di una importante riabilitazione ambientale». Non pochi, ad esempio, si lamentano per il programmato taglio delle centinaia alberi d’alto fusto – a Gaza li chiamano “kenyoti”- lungo i due lati della Salah Edin.

Mentre ieri lo sceicco Qaradawi si godeva l’abbraccio della gente di Gaza, le radio riferivano della tensione in Cisgiordania per la decisione israeliana di costruire 296 nuove case per i coloni di Bet El, alle porte di Ramallah. «E’ la prova che il governo israeliano vuole sabotare e rovinare gli sforzi dell’amministrazione Usa per rilanciare il processo di pace», si lamentava il capo negoziatore dell’Anp, Saeb Erekat. A Ramallah continuano a credere ancora alle buone intenzioni americane, a Gaza invece sventolano la bandiera del Qatar. Quella palestinese attende sempre di salire in alto sul pennone.