Arturo Martini, “Donna che nuota sott’acqua”, 1941-’42, Verona, collezione Fondazione Cariverona

 

«Il culo, la testa e le stelle», quasi la strofa di uno stornello toscano.
Così titolava il saggio affidato da Jean Clair al catalogo della mostra su Arturo Martini allestita in Palazzo Medici-Riccardi nel 1991; evento che – in considerazione della nuova attualità riconosciuta internazionalmente allo scultore – si proponeva di presentarne l’oeuvre fra medium eterogenei e scale variabili, partendo da Gli amanti del 1920 fino al Narciso del ’41 ma passando anche per veri e propri capisaldi, la Pisana o il Tobiolo in primis.
In questo senso Firenze si trovava a rivestire una duplice funzione in seno alla più generale riscoperta dell’artista, avviatasi allora da oltre un decennio.
La sede espositiva su via Cavour aveva infatti inanellato una serie consistente di monografiche dedicate alla statuaria moderna e contemporanea, con tappe su Donatello e Henry Moore, su Fausto Melotti e Arnaldo Pomodoro: Martini veniva dunque riammesso in un pantheon inclusivo di passati persistenti e presenti inevitabili, attraverso un’unica, ininterrotta eredità, riappropriandosi di una statura già riconosciutagli in vita.
In un’ottica diversa, però, Firenze arrivava in coda a una serie cospicua d’iniziative che tra la fine degli anni settanta e il recente anniversario del 1989 avevano riacceso un focus brillante sulla produzione del trevigiano: pensiamo alla rassegna del Beaubourg, Les réalismes 1919-1939, e a quella – di poco successiva – titolata Italian Art in the 20th Century per volontà di Norman Rosenthal; ma anche al trionfo celebrato a Palazzo Reale di Milano nel 1985, insieme alla polemicissima selezione riunita alla Galleria Gian Ferrari nel ’79, intesa per chiudere una guerra di expertises colpevole di aver intorbidato la ricezione postuma dell’artista.
Pur fatto sconto del suo inconfutabile anacronismo (e però alla luce dei propositi canonizzanti attribuiti all’appuntamento), il percorso racchiuso nella residenza michelozziana si offre comunque fra gli episodi di rilievo per la fortuna di Martini: del resto, nella difficile ascesa del suo astro dentro e fuori l’avanguardismo d’inizio secolo, proprio la città toscana aveva offerto allo scultore un primo palcoscenico nazionale, utile a magnificarne qualità e valore in anticipo rispetto ad altre occasioni di rilevanza consolidata, dalle Biennali in Laguna alle kermesse romane.
Nel ’22, Martini aveva difatti preso parte con un invio di otto sculture alla Primaverile sponsorizzata da Sem Benelli, vedendosi accolto nella sala riservata al gruppo di Valori plastici, al fianco di Carlo Carrà, Giorgio de Chirico e Giorgio Morandi; e se l’invito gli aveva offerto un palcoscenico di grande richiamo, il suo intervento s’era prestato da prima incrinatura col Novecento sarfattiano, aprendo la sua parabola a esiti originali e a risultati di squisito eclettismo.
Non a caso, la presentazione dell’artista venne affidata alla penna di Alberto Savinio, il quale si prodigò a metterne in luce «la tipica rigidità del nostro Quattrocento»; e altrettanto indicativamente la scelta di opere gli garantì il plauso di un’auctoritas ‘strapaesana’ come Ardengo Soffici, fervido nel sancirne il peso di «rinnovatore in tono classico» secondo un’ottica di ritorno all’ordine di sapore giottesco o pierfrancescano.
Ha dunque un significato ‘storico’, oltre a un indubbio spessore ‘critico’, la proposta che oggi – e fino al 14 novembre – occupa gli spazi attorno al chiostro nel fiorentino Museo Novecento, e cioè l’indagine dei rapporti fra Martini e la città condotta per cura di Lucia Mannini: una ricerca che, a differenza di quanto anticipato, si focalizza però sugli incontri destinati a ricondurre lo scultore in Toscana all’inizio degli anni trenta, nel bel mezzo della cosiddetta «stagione del canto» e al fervore creativo a essa connesso; nell’arco di tempo racchiuso pertanto fra la rassegna veneziana che ne testimoniò, sul ’26, l’esordio ai Giardini e il consolidarsi di una fama sancita invece dalla Biennale del ’32.
Si tratta cioè di un momento esistenziale che vide trascorrere il catalogo del maestro dall’esercizio prediletto nella ceramica e nella terracotta alla sperimentazione con materiali nobili fra cui la pietra di Finale, il bronzo e, in ultimo, il marmo; non a caso il termine della mostra è imbastito attorno a una sala di bella tenuta lirica, ottenuta grazie al riflesso della Donna che nuota sott’acqua – abbagliante d’un nitore carrarino – nei fantasmi di celluloide della pellicola White Shadows in the South Seas (che nella silhouette bianchissima di Raquel Torres avrebbero ispirato a Martini il suo indiscusso capolavoro).
Se questo spazio conclusivo si costituisce quindi come un omaggio efficace alle estreme relazioni del veneto con le Alpi Apuane, il fulcro dell’esposizione si incardina però a passaggi precedenti, di risalto non meno cospicuo. L’artista avrebbe infatti ricevuto per l’appunto a Firenze – mentre vi si trovava ospite di Carlo Fasola, assieme all’amico Roberto Papi (e alla moglie di questi, Vittorina Contini Bonacossi) – l’esito della premiazione della I Quadriennale di Roma, a cui aveva partecipato nel 1931 con un’impressionante serie di sculture collocate, a Palazzo delle Esposizioni, nella Galleria delle Nicchie concepita da Pietro Aschieri: ed è un colpo straordinario che al Museo Novecento ricompaia un suo gesso lasciato nella villa dell’illustre germanista, in prossimità di Piazzale Michelangelo, titolato per l’appunto l’Attesa. Elena Pontiggia, che di Martini è stata acuta biografa, ricorda come in quei giorni lo scultore vivesse «in preda all’ansia», vittima di un’incertezza spaccanervi nutrita dalle aspettative circa il verdetto del comitato giudicante: il tema potrebbe pertanto essergli stato suggerito dalla sospensione gravida di quelle settimane. D’altronde, i contatti stretti nello stesso soggiorno gli avrebbero consentito di esporre in riva d’Arno, a un anno appena di distanza, presso la neonata galleria di Palazzo Ferroni, finanziata dal mercante Luigi Bellini.
Grazie a un’approfondita ricerca documentaria, la mostra fa il punto anche su questa circostanza, in virtù della quale Martini fu affiancato a Primo Conti in un vernissage inteso in origine per venire introdotto da saggi di Carrà e Roberto Longhi. I testi, in realtà, non furono mai consegnati ma le carte presentate in percorso chiariscono il carico di stima che l’iniziativa poté garantire allo scultore nei circoli intellettuali cittadini.
In questo senso è anzi acuta l’approssimazione della mostra del ’32 agli acquisti di riuscite martiniane perfezionati negli stessi anni da Alessandro Contini Bonacossi e al conseguente allestimento delle singole opere nella sua casa in via Valfonda, nota come Villa Vittoria. Lo scatto in bianco e nero dall’archivio Papi Cipriani, appeso a una parete della seconda sala, fa anzi rimpiangere lo smembramento di una collezione ordinata da un gusto tanto raffinato, in cui la Donna al sole si accoccolava sensuale sulla panca morbida, impostale da Giò Ponti.
Oltre alle sculture provenienti dalla raccolta Della Ragione, naturalmente accorpate al percorso, fa poi bella mostra di sé presso l’ex convento delle leopoldine un’altra terracotta di sensibilità drammatica, e cioè l’esile, filiforme Ofelia appartenuta al compositore oriundo Mario Castelnuovo Tedesco. Fin qui poco nota (se non per una foto di Raffaello Franchi), la fanciulla s’inarca in un delirio inerme e fragile, gli occhi sbarrati, un seno scoperto, le mani aperte in segno di allarme e resa: si tratta di una figura commovente, tutta presa d’una muta poesia, che da sola vale la trasferta fiorentina.