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Lo sport e la Grande Guerra

Lo sport e la Grande GuerraGiuseppe Sinigaglia

Bookcity Il mondo sportivo è favorevole all’intervento bellico e la stampa rilancia come parole d’ordine che gli sportivi sono i soldati migliori e che per un esercito agguerrito bisogna incentivare lo sport . Incontro con Felice Fabrizio

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 24 ottobre 2015

Nell’ambito di Bookcity, oggi all’Arena Civica Gianni Brera di Milano, Felice Fabrizio, Sergio Giuntini, Elio Trifari e Claudio Gregori, presentano il volume collettaneo “Lo sport alla Grande Guerra” edito dalla Società italiana di storia dello sport, euro 30 (www.storiasport-siss.it), con contributi tra gli altri di Paul Dietschy su Grande Guerra e sport europeo, Sergio Giuntini sui futuristi al fronte, Stefano Morosini sul Cai italiano nella prima guerra mondiale, Nicola Sbetti su Sport Illustrato e Grande Guerra. Con Felice Fabrizio, che ha pubblicato Corpi per la Patria, le attività motorie nel lungo Risorgimento (1784-1915), approfondiamo il tema del rapporto tra sport, nazionalismo e Grande Guerra. Una versione più ampia dell’intervista è pubblicata sul sito (www.ilmanifesto.it).

Qual è il rapporto tra lo sport e la Grande Guerra?

Se uno studente chiedesse da dove iniziare a studiare la storia dello sport italiana, direi dalla Grande Guerra, perché rappresenta lo sbocco inevitabile di cento anni anni di attività motorie, consente di capire quello che accade prima. Se adottiamo la datazione tradizionale la Grande Guerra è un evento importante del Novecento, ma tra i tanti, se invece adottiamo la datazione del secolo breve oppure del lungo Risorgimento, la Grande Guerra rappresenta un tornante fondamentale, è la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, anche sul piano sportivo. Prima della Grande Guerra vi era il legame strettissimo tra lo sport e la preparazione alle armi e tra lo sport e il nazionalismo. Fin dalla nascita le attività motorie, in particolare la ginnastica e il tiro a segno, sono poste al servizio della Patria, della Nazione e sono funzionali all’addestramento militare fino agli anni ’80 dell’Ottocento, quando entra in gioco lo sport, che con gli ambienti militari c’entra poco perché è fine a se stesso, ha una componente più ludica, si fa sport per fare sport, senza una motivazione secondaria, anche se questo è vero fino a un certo punto. Questa impostazione va spegnendosi, man mano che ci si allontana dal progetto post unitario risorgimentale di nazionalizzazione delle masse, dove il poligono di tiro, il club alpino, diventano un luogo di formazione di un’identità collettiva condivisa.

Cosa succede con il nuovo secolo?

Riprende con maggiore vigore e nuovi contenuti, quando entra in gioco il nazionalismo, che ribalta gran parte dei paradigmi precedenti, trasforma il patriottismo, la difesa dei confini in volontà di potenza, in aggressività, in imperialismo. Dà l’idea di un’Italia fiera delle sue conquiste rispetto all’Italietta giolittiana, frustrata, grigia, mediocre, incapace di portare anche sul piano della cultura, dello sport, i progressi che si stanno registrando in campo economico e sociale, che pur se circoscritti ad alcune aree sono innegabili. Il nazionalismo usa un repertorio ideologico e un lessico che sono tipici del fascismo. Gli stilemi, le formule, sono gli stessi, il posto al sole, la grande patria, la terza Italia, la guerra come banco di prova dei migliori, lo sport come palestra dell’ardore volontaristico, disprezzo del pericolo, lo spirito di sacrificio che arriva fino alla sublimazione dell’eroismo e della morte in battaglia, sono tutte problematiche che vengono lanciate dai grandi vati, D’Annunzio, i futuristi, Corradini, Oriani, Papini, e che lo sport, la stampa sportiva, gli intellettuali di terzo ordine, che si occupano di sport, riprendono, organizzano in parole d’ordine che cominciano a circolare, si amplificano durante la guerra di Libia, che viene considerata il primo banco di prova dell’efficienza dello sport italiano.

Qual è l’obiettivo?

Le conclusioni che si ricavano sono che gli sportivi sono i soldati migliori, quindi bisogna incentivare lo sport per creare un esercito agguerrito, un concetto che si ritroverà nel fascismo e nel nazismo, il cui retroterra culturale è rappresentato proprio da questo periodo. Tra l’inizio del ’14 e le radiose giornate di maggio tutte le componenti della società italiana si dividono tra i favorevoli all’interventismo e i sostenitori del neutralismo.

Anche il mondo sportivo?

Il mondo sportivo si presenta unanime, compatto, come un blocco granitico, favorevole all’intervento in guerra, compresi i cattolici, che mantengono una posizione ambigua, sfumata, ma alla fine si schierano per l’interventismo. Fanno eccezione i giovani socialisti, che da tempo avevano capito che lo sport era una componente importante del nazionalismo, avevano ben chiara la deriva che stava prendendo l’Italia, ma non partecipavano alla vita sportiva, perché la ripudiavano, perciò restarono inascoltati. Se non si comprende questo passaggio non si capisce il motivo dell’autentica mobilitazione delle forze sportive, nell’imminenza del conflitto. In questo periodo converge tutto quello che era stato costruito in precedenza, è come se sfilasse in parata tutto il mondo sportivo italiano, ci sono i veterani, le società ginnastiche, le società di tiro a segno, le società alpinistiche ed escursionistiche, a partire dal Cai, tutte estremamente nazionalistiche. Ci sono i nuovi arrivati i battaglioni volontari creati dai nazionalisti, la Lega Navale. Siamo abituati a vedere i volontari degli automobilisti e dei ciclisti, ma non sono i soli, ci sono i volontari motociclisti, aeronautici, aviatori, aerospazieri, quelli dei palloni e dei dirigibili, alpini, sciatori, sono piccoli gruppi, ma presenti sul territorio nazionale, spaziano abbastanza. Si pensi alla Lega navale italiana che era nazionalista e imperialista fin dalle origini, presente un po’ ovunque, ha un suo pubblico di ascolto, fa pubblicazioni e promuove conferenze. Vi sono anche i battaglioni studenteschi, a Milano si costituisce la federazione studentesca Sursum Corda, che li raggruppa nel 1909. Tutte queste componenti sono minoritarie, ma sono visibili e chiassose. Nel maggio 1915 sfilano in corteo, si fanno sentire, reclamano, e quindi sembrano molto più numerosi e rappresentativi di quello che non sono. Sono componenti che contribuiscono a dar vita alla crociata di gare popolari che comprendono tiro a segno, concorsi ginnastici militari, corsi di preparazione pre-militare, gare a gruppi di marcia e di tiro, molto partecipati. Nel 1915 a Milano alla gara popolare di tiro a segno partecipano 1500 tiratori.

Qual’era la componente sociale di questi gruppi?

E’ di due tipi, una prevalentemente studentesca, di origine borghese, la componente colta era considerata dal nazionalismo la parte sana. Per i nazionalisti c’è il mondo delle ombre e il mondo dei corpi. Il primo è il mondo della politica, dell’Italia rinunciataria, il mondo dei corpi è quello dei giovani desiderosi di mettersi in gioco e di battersi per i valori della Grande Italia.

Qual è il ruolo della stampa sportiva?

Quando la guerra viene dichiarata provoca un’ondata di entusiasmo. La stampa sportiva gioca un ruolo fondamentale, raccoglie le parole d’ordine, le istanze, le suggestioni, le rielabora, le riorganizza e le riporta in maniera martellante. La Gazzetta dello Sport, che da sempre è militarista, nazionalista, rafforza queste sue tendenze nell’imminenza della guerra, infatti il 24 maggio del 1915, il titolo di prima pagina è: “Per l’Italia contro l’Austria, hip, hip, hurrà”. I contenuti che si leggono sono: finalmente siamo in guerra, abbiamo lavorato fin dal 1896 per questo obiettivo e le nostre istanze, i nostri sogni si sono realizzati. Nei primi 15 giorni di guerra La Gazzetta dello Sport pubblica una serie di editoriali che battono su questo concetto: abbiamo temprato sulla fucina ardente dello sport la gioventù da buttare in battaglia, siamo orgogliosi di questo. La Gazzetta dello Sport riceve un riconoscimento ufficiale dal ministero della Guerra, che nel 1915 sottolinea le benemerenze del quotidiano sportivo nel lavoro di preparazione materiale e soprattutto spirituale alla guerra. L’altro aspetto su cui insiste la Gazzetta dello Sport è che gli sportivi sono la parte migliore del paese e ci si aspetta da loro un’adesione entusiastica. Infatti gli sportivi saranno i primi a entrare in guerra, si arruoleranno come volontari e si batteranno da eroi. Contrariamente a quello che avverrà nella seconda guerra mondiale, dove è accentuato l’imboscamento, infatti i morti si contano sulle dita di una mano, nella Grande Guerra il contributo offerto dagli sportivi anonimi e dai campioni è notevole, i calciatori in particolare, l’Inter e il Milan vengono letteralmente falcidiati. Tutti gli sport hanno perdite di campioni, l’atletica leggera, il ciclismo, il canottaggio, i ginnasti soprattutto, Giuseppe Sinigaglia, il più grande sportivo dei primi quindici anni del ‘900 muore in battaglia.

E i volontari?

L’ entusiasmo iniziale si spegne a poco a poco, i volontari italiani ruotano intorno a cifre bassissime, rispetto a quelli dell’esercito austriaco. Nel primo anno di guerra si contano 160 mila volontari e dagli alti comandi militari sono considerati d’impaccio, perché indisciplinati, politicizzati, sono mal visti e odiati dai commilitoni, perché li ritengono responsabili della guerra. Una delle canzoni di allora recitava: “ La colpa è dei vigliacchi studenti, son d’impiccio e la guerra han voluto”. I volontari vengono dispersi nei vari reparti perché si teme che insieme facciano pasticci. Gli unici che riescono a mantenersi compatti sono i volontari ciclisti milanesi, che in realtà sono i futuristi, si rendono utili perché partecipano ad azioni di pattugliamento e di guerra. Marinetti partecipa a due o tre azioni di guerra, poi si sposta tra un fronte e l’altro, va a Roma, a Milano per sostenere la propaganda. La guerra è un po’ strana, da una parte è di massa e dall’altra aristocratica, D’Annunzio fa la sua guerra privata da trasvolatore di Vienna, Marinetti fa la sua guerra privata, i volontari fanno la loro guerra privata, anche gli arditi, dopo aver ricevuto una severissimo addestramento sportivo.

La guerra chi la fa?

La fanno gli altri, i poveracci. Non è la guerra che si aspettavano gli sportivi, soda e in campo aperto, grandi attacchi, una guerra di cavalleria, si trovano di fronte una guerra grigia, anonima, statica, è una gigantesca guerra industriale di distruzione di massa, dove la famosa arma-uomo, termine assai caro alla Gazzetta dello Sport, cede innanzi a una mitragliatrice che ne ammazza parecchi. Alla fine del 1915 gli alti comandi smantellano tutti i corpi volontari che vengono assegnati all’esercito regolare. Questa operazione è un’altra gigantesca delusione, tutto l’ entusiasmo, lo slancio promozionale, l’ardore volontario giovanilistico si spezza, va in mille pezzi.

Tra le truppe alleate ci sono gli sportivi?

L’altro aspetto è rappresentato dallo schock provocato dal contatto con le truppe alleate. Arrivano in ritardo, nel 1917, ma il confronto è impietoso. Gli inglesi sono autentici sportivi, gli italiani sono cresciuti al teatro delle marionette, dalla ginnastica collettiva al tiro al bersaglio, che non hanno nessun rapporto con la guerra, alla scherma fino all’equitazione che in guerra non servono a niente, tra gli sportivi si registra una grossa frustrazione.

Qual’è la differenza con gli inglesi?

L’attività sportiva degli inglesi è gestita al fronte dall’Ymca (Young Men’s Christian Association, un’organizzazione cristiana ecumenica, ndr), non era funzionale alla vita militare, era rivolta al mondo giovanile, praticavano principalmente il basket. L’Ymca non era riuscita a sfondare in Europa tra i paesi cattolici, perciò utilizza la prima guerra mondiale come testa d’ariete, mette a disposizione dei militari attrezzature sportive da campo, per trovare occasione di inserirsi nell’esercito. l’Ymca in realtà non riuscirà nei suoi intenti per due motivi, primo a causa della battaglia ferocissima che gli farà il fronte cattolico e poi l’arrivo del fascismo, che vive, percepisce l’Ymca come qualcosa di internazionalistico e tipicamente anglosassone, quindi da bocciare.

Dopo la guerra?

Il movimento sportivo italiano esce a pezzi, l’attività sportiva si è completamente bloccata. Tra il 1915 e il 1916 si dibatte se troncare l’attività o continuare, naturalmente si continua ma con le vecchie glorie e i ragazzini. Il movimento sportivo da una parte è pieno di rancore perché non è stato riconosciuto il suo ruolo fondamentale, e dall’alta è pieno di aspettative, vuole passare alla cassa per riscuotere il dovuto. Gli esponenti del movimento sportivo sostengono questa tesi: ci siamo battuti, siamo stati gli unici a non avere momenti di incertezza, abbiamo pagato con il sangue il nostro impegno, adesso vogliamo il nostro riconoscimento.

Qual è?

Che lo sport sia portato al centro della vita nazionale, sia preso in considerazione dal mondo politico, dal mondo della scuola, dal mondo militare. L’altra cosa che reclama è una rivoluzione radicale degli assetti organizzativi, che sono in mano a uomini di sport vecchi, a persone che dirigono strutture burocratiche inefficienti, perciò chiedono svecchiamento, razionalizzazione e snellimento. Però anche le leve della politica sono sempre in mano ai grandi vecchi, il mondo politico è impegnato in tutt’altre faccende. Al governo ci sono i soliti, Nitti e Giolitti. Il mondo sportivo non ottiene nulla, neppure quello che sarebbe stato lecito, come la revisione dell’educazione fisica scolastica, che era basata su sistemi ottocenteschi, su personale vecchio, frustrato, emarginato. L’altra questione riguarda l’istruzione premilitare da trasformare in un itinerario ginnico-sportivo, che dalla scuola si estendesse alle società sportive e all’esercito. Il movimento sportivo non ottiene nulla, perché da una parte il potere resta in mano ai soliti vecchi con equilibri difficili da scalfire, dall’altra c’è una grande confusione e finisce per prevalere l’interesse ideologico e di partito. Per esempio l’istruzione premilitare è un cavallo di battaglia di tutti i partiti politici, vogliono una ferma breve, in realtà si fanno decine di commissioni, si scrivono interminabili relazioni, si litiga ma alla fine non si fa nulla. Quello che fa di più è Ivanoe Bonomi, come presidente del consiglio e ministro della guerra, presenta un progetto organico che prevede scuole con il sostegno dell’iniziativa privata, istruzione premilitare, istruzione militare vera e propria. La durata dei ministeri è di sei mesi, i ministri della guerra che si succedono sono 12 in quattro anni. Il movimento sportivo cerca altri interlocutori, il mondo politico è in mano a vecchie caste, i nazionalisti contano poco o nulla, i socialisti continuano nella loro politica antimilitarista, antinazionalista, perché fanno parte di un movimento internazionale.

Il mondo sportivo a chi si rivolge?

Ai fascisti, che si mostrano più sensibili a queste tematiche, rivendicano la continuità con i temi, la fraseologia, i concetti di cui abbiamo detto prima. I fascisti si mostrano disponibili a dare ascolto a queste istanze, a raccoglierle e a valorizzarle. In effetti non perdono tempo, subito dopo la marcia su Roma, la presa del potere, i fascisti battono su questi concetti: la nazione militare voluta dai nazionalisti è fallita, la marcia su Roma ha dimostrato che la vera nazione in armi è quella fascista, abbiamo fatto quello che in Italia in cento anni nessuno è riuscito a fare. Abbiamo radunato le persone, le abbiamo armate e portate a Roma, questa è la vera nazione in armi, quella del fascismo. La stampa sportiva si occupa subito dello sport fascista, nel 1919 in una delle prime riunioni del direttivo del fascio di combattimento, all’odg c’è la creazione di società sportive. Da una parte c’è il fascismo repressivo dall’altra un’incredibile capacità di costruire il consenso attraverso un reticolo di associazioni che intercettano bisogni reali, diffusi, non c’è categoria sociale che sfugga a questa operazione, lo sport è una di queste, sotto questo punto di vista vi è una notevole lungimiranza da parte del fascismo. I fascisti capiscono prima degli altri che lo sport può essere utilizzato per quello che per altri era stato solo un’illusione: costruire la potenza nazionale, avere prestigio a livello internazionale, utilizzare lo sport per il rafforzamento della coesione e del consenso interno.

In che modo lo fa?

Il fascismo raccoglie una serie di compagni di strada, nazionalisti, giornalisti, dirigenti sportivi, frustrati, tutti in cerca di visibilità. A poco a poco, al di là dell’uso strumentale dello sport, realizza tutto quanto era stato programmato, lo sport nell’esercito, lo sport femminile, la costruzione degli impianti sportivi, lo sport nelle scuole, la creazione dell’Enef, che sottrae l’educazione fisica e sportiva alle scuole per assegnarla ai privati, non era un progetto campato in aria, visto quello che aveva prodotto la ginnastica scolastica. Il progetto fallisce per mancata trasparenza nell’uso dei finanziamenti e di persone competenti. L’Enef diventa una macchina mangiasoldi, per due anni la sede nazionale è a Milano, si propone di costruire lo stadio, dove oggi c’è il campo di atletica Giuriati, vicino al Politecnico, dilapida ingenti finanziamenti e realizza solo la metà delle opere. La cosa incredibile è che una struttura come il campo di calcio, che aveva una funzione formativa per i giovani sia finita in mano a grandi industriali, infatti nel comitato direttivo c’era Edoardo Bianchi, Leopoldo Pirelli, che non avevano spirito missionario, a loro interessava gestire lo stadio, fare grandi incassi. Ma al di là di queste mancanze, il fascismo realizza il suo piano. Il partito fascista è l’unico che in questa fase con propri istituti si dedica esclusivamente allo sport, è l’unico partito che a Milano costituisce una commissione sportiva, un gruppo di competenza, che si occupa non solo di problemi organizzativi, ma anche ideologici e detta la linea al partito.

Cattolici, comunisti e socialisti che fanno?

Il partito Popolare non si occupa di sport, c’è un accordo tra Don Sturzo e l’Azione Cattolica secondo cui il partito popolare non può creare circoli giovanili, perché tutto resti nelle mani dell’Azione Cattolica. I socialisti, si muovono tardi, creano delle cose interessanti l’Ape ( Associazione proletaria escursionisti, ndr) l’Apef (Associazione proletaria educazione fisica), e il settimanale Sport e Proletariato, ma lo fanno nel momento sbagliato, quando è troppo tardi, soprattutto la pubblicazione del settimanale Sport e Proletariato, rappresenta l’occasione perduta perché nei pochi mesi di vita parte con l’idea di costituire la Federazione Sportiva Proletaria, ma non viene realizzata. Ci aveva provato L’Ordine Nuovo di Gramsci, che già nel ’22 aveva istituito una commissione sport a Torino con i consigli di fabbrica, con l’intento di dar vita a un organismo nazionale, che comprendesse anche Apef e Ape, poi l’irruzione dei fascisti interrompe la pubblicazione de L’Ordine Nuovo, come pure la devastazione della tipografia Ziboni che stampava Sport e Proletariato, l’unica rivista che non può riprendere le pubblicazioni per ordine di Finzi ministro degli Interni e fratello del Finzi direttore della Gazzetta dello Sport. L’altra occasione perduta è rappresentata dalla Cgil, che avrebbe dovuto essere la punta di diamante in questo processo, ma solo nel ’25 crea una Federazione culturale, ricreativa e sportiva, di lì a poco da parte dei fascisti segue la devastazione della Camera del Lavoro di Milano e anche la federazione culturale e sportiva finisce.

I risultati sportivi ci sono o è tutta propaganda?

Fino agli anni Trenta i risultati non si vedono, tanto è vero che alle olimpiadi del ’28 ad Amsterdam, quelle che agli occhi del fascismo avrebbero dovuto rappresentare il primo banco di prova, sono fallimentari. Bisogna aspettare le olimpiadi del ’32, ma i veri risultati si sarebbero visti alle olimpiadi del ’40, quando la generazione integralmente avviata dal fascismo sarebbe arrivata pronta per le competizioni internazionali, se non ci fosse stata la guerra. Al di là dei risultati di vertice, la promozione di massa c’è, si pensi all’impiantistica sportiva avviata nel ’27, vengono costruiti i famosi campi sportivi del Littorio, saranno stati anche semplici campi di calcio, ma ci sono, prima non c’erano. Anche gli impianti sportivi costruiti a Milano sovrastano di gran lunga quelli che c’erano prima, e dopo non è che sia stato fatto molto. Le scuole elementari costruite durante il fascismo prevedevano una o due palestre e in alcuni casi anche la piscina. C’è un’attenzione strumentale, ma c’è. Perciò non si può capire quello che è accaduto prima e che è accaduto dopo la Liberazione, se non si capisce il passaggio fondamentale della prima guerra mondiale. Il vento del nazionalismo che soffia prima della guerra rappresenta il terreno favorevole sul quale si coltiva il fascismo anche nel rapporto con lo sport.

Dopo la Liberazione?

La mentalità nazionalista, militarista, patriottica, permane nell’educazione fisica e nello sport, anche dopo la Liberazione. Ho fatto elementari, medie e superiori con insegnanti che avevano una formazione fascista, soprattutto gli insegnanti di educazione fisica, che erano quelli usciti dall’Accademia di Roma, una mentalità durata fino agli anni ’60. Anche al Coni, sostanzialmente sopravvive lo spirito fascista e la struttura resta la stessa, il mondo che ruoto intorno alla Federazione ginnastica ancor oggi è impregnata di questi valori. Dopo la Liberazione il Coni è rimasto di destra, c’erano tutte le ragioni per considerarlo tale, non bastava sostituire il presidente e nominare Giulio Onesti.

La sinistra dopo la Liberazione che ha fatto sul fronte sportivo?

Ha dato vita all’Uisp, ma questa organizzazione sportiva ha dovuto superare grosse diffidenze. Solo negli ’70 ha saputo creare un modello sportivo alternativo rispetto a quello dominante. penso anche all’ente cattolico Csi. Prima di quegli anni cosa c’era di alternativo? L’Uisp si rifaceva allo sport popolare, ma non c’era nulla di sostanziale.

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