Un spettro si aggira per il mondo: è la sinistra. Ma in un senso diametralmente opposto a quello del celebre incipit del Manifesto di Marx ed Engels.

Un tempo, per interpretare gli esiti drammatici a cui giungevano le grandi parabole rivoluzionarie, si sarebbe ricorsi al celebre detto del girondino francese Vergniaud (poi ripreso da Hannah Arendt, fra gli altri): «la rivoluzione è come Saturno, divora i suoi figli». Oggigiorno, invece, per comprendere la situazione in cui versa la sinistra mondiale, si dovrebbe piuttosto ricorrere alla metafora dell’«autofagia».

Incapace di metabolizzare le sconfitte decretate da quell’implacabile tribunale che è la storia, infatti, la sinistra avrebbe «divorato se stessa» (i suoi valori fondamentali) per poi riconsegnarsi alla scena mondiale sotto forma di uno spettro indistinto e indistinguibile, sostanzialmente incapace di ricreare il proprio evento generativo: «l’incontro dei movimenti reali di protesta e di lotta per l’emancipazione con la teoria impegnata ad analizzare criticamente l’ordinamento esistente».

Un monopartitismo competitivo

È quanto si può evincere dalla lettura del nuovo libro di Domenico Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra (Carocci, pp. 303, euro 23), un’impietosa fotografia del mondo contemporaneo in cui il trionfo del pensiero unico neo-liberale e neo-colonialista è potuto avvenire anche grazie al dissolversi della sinistra, all’interno di un sistema filosofico-politico in cui le differenze e i conflitti sono evaporati per lasciare il posto a quello che l’autore chiama «monopartitismo competitivo».

Il discorso di Losurdo si fonda su presupposti tipicamente marxiani, partendo dall’analisi della configurazione attuale che ha assunto la struttura economica.

In estrema sintesi il nostro tempo è caratterizzato da due grandi processi di redistribuzione del reddito. Nei paesi capitalistici avanzati, con lo smantellamento dello Stato sociale, i licenziamenti, la precarizzazione, la riduzione dei salari ecc., si accentua la polarizzazione sociale: una élite sempre più ristretta si appropria di una massa crescente di ricchezza sociale a danno delle classi subalterne (interessante il confronto dell’autore con le analisi di Thomas Piketty). A livello mondiale è in atto invece una redistribuzione del reddito di segno opposto: i paesi che si sono liberati dal dominio coloniale o semicoloniale e che ora sono «emergenti» (in particolare la Cina) riducono rapidamente il distacco rispetto ai paesi capitalistici e mettono in discussione quella great divergence (titolo dell’omonimo libro di Kenneth Pomeranz, tradotto in italiano per il Mulino) che per secoli ha contrassegnato e suggellato il dominio coloniale o semicoloniale dell’Occidente sul resto del mondo. La borghesia monopolistica che è la protagonista e la beneficiaria del primo processo di redistribuzione del reddito cerca in ogni modo di contrastare il secondo: le due guerre del Golfo, la distruzione della Libia, il tentativo di destabilizzazione della Siria, le minacce all’Iran, la progressiva espropriazione e marginalizzazione del popolo palestinese sono aspetti diversi di un’unica politica che intende cancellare o rimettere in discussione i risultati della rivoluzione anticolonialistica in Medio Oriente e nel resto del mondo.

In Occidente, una sinistra degna di questo nome sarebbe chiamata a scontrarsi con la borghesia monopolistica su entrambi i fronti: per contrastare il processo di redistribuzione del reddito a favore dei ceti privilegiati in atto nei paesi capitalistici avanzati; per salutare e appoggiare il processo di redistribuzione del reddito in atto a livello mondiale a favore dei paesi che hanno alle spalle la rivoluzione anticolonialista; a tal fine dovrebbe combattere contro la politica neocolonialista di riarmo e di guerra messa in atto dall’Occidente e soprattutto dagli Usa.

Il guaio, secondo l’autore, è che la sinistra occidentale dà prova di grave debolezza sia sul primo punto sia soprattutto sul secondo. Come è potuto accadere tutto ciò? A suoi tempi Marx ha osservato che la borghesia esercitava il suo dominio grazie al monopolio da essa detenuto dei mezzi di produzione e diffusione delle idee. A questo monopolio, se n’è aggiunto, per Losurdo, un altro ancora più temibile: il monopolio della produzione e diffusione delle emozioni. Prima di scatenare una guerra, approfittando della sua schiacciante superiorità per quanto riguarda la potenza di fuoco multimediale, l’Occidente isola, manipola o inventa un particolare raccapricciante nel comportamento del nemico da abbattere (antesignano di questo metodo fu Bismarck, dal momento che, volendo giustificare l’espansionismo coloniale ad opera del II Reich, chiese ai suoi uomini: «Non sarebbe possibile reperire dettagli raccapriccianti su episodi di crudeltà?»).

Il keynesismo di Pechino

Investito dal «terrorismo dell’indignazione», tale nemico può essere bombardato con il consenso di un’opinione pubblica più o meno larga. È così che vengono programmate e messe in atto, oltre che le guerre, anche le «rivoluzioni colorate», che per Losurdo sono in realtà veri e propri colpi di Stato (l’ultimo esempio è l’Ucraina dei giorni nostri).

Il finale del libro vede un crescendo impressionante di atti di accusa da parte dell’autore nei confronti dei maggiori esponenti culturali della sinistra moderata e di quella radicale: da Habermas e Bobbio, definite «anime belle», a Žižek e Latuoche, che sulla scia di Foucault (e Hayek!) troppo presto e inopportunamente hanno mandato in soffitta la «lotta di classe» e lo «stato sociale», fino al marxista David Harvey, che nel condannare la Cina inserendola fra i paesi che hanno aderito al neo-liberismo, per Losurdo finisce solo col mortificare il paese protagonista della più grande rivoluzione anticolonialista della storia, nonché l’ultimo baluardo mondiale delle politiche keynesiane.

Le tesi di Losurdo sono ardite e discutibili. Ma su una cosa ci sono pochi dubbi: è da qui che bisogna partire per ridare carne, e sostanza, al fantasma invisibile che chiamiamo sinistra.