Jacques Verroust, Herbert List, Martine Franck, Elliott Erwitt… Con le fotografie che catturano le pratiche dei visitatori nei musei si racconta un secolo di storia dell’arte vista dal pubblico. Com’è cambiata dal Novecento la dinamica delle relazioni fra le opere, gli spettatori e gli spazi espositivi? Rispetto alle tematizzazioni dello sguardo in pittura e al cinema, dove la foto è un adiuvante di «spettacoli ottici» e dell’«effetto Sherlock» (Stoichita) a regime, nel genere sui pubblici dell’arte la fotografia, forma autonoma, inciampa in eventualità di comportamento che non si conoscono ancora.

SCATTI METARIFLESSIVI, incerti tra il sapere e il non sapere, insegnano ciò che accade nei musei, dando senso all’esperienza della visita mentre si svolge: stupori, commozioni, distrazioni e disagi a loro volta espressi fotograficamente e che l’inquadratura mette in condizione di significare.
Genius loci. Nel teatro dell’arte (Contrasto, pp.144, euro 22) è la prima ricognizione di questo genere fotografico. Cinquantasette scatti di Roberto Cotroneo – una cernita tematica dei 15mila realizzati – si intrecciano con ekphrasis che li descrivono, precedute da un’introduzione sempre di sua mano. Un corpus in grado di attualizzare Iser, Jauss e Francis Haskell. Estetica, pragmatica e fenomenologia della ricezione sono spiegabili con «materialità documentarie» (Foucault), sull’esempio dei Dipinti e lacrime di James Elkins: si piange davanti ad alcuni quadri. Che ossimoro allora l’«osservatore esterno»! Lo spectator è sempre in fabula, anche quando è strategicamente escluso o ai margini dell’inquadratura, come piace a Cotroneo, per fissare il museo nei momenti in cui è luogo del possibile. Il progetto del libro è costitutivamente «imperfetto», perché teso a cogliere il divenire della fruizione. Cotroneo rintraccia però costanti e trasformazioni.

LE NUOVE MODALITÀ di sguardo risultano dal campo sempre più espanso delle opere, installazioni che hanno reso necessario l’aumento di volume delle sale e istruito alla focalizzazione sulla singolarità. Masse di visitatori attraversano opere la cui unica cornice è l’intero perimetro della stanza che occupano. L’ampiezza delle opere e degli spazi dà loro libertà di movimento e li rende elementi espositivi: consente l’immissione di tagli fotograsfici che ne captano i ritmi, connessi con le luci e trasformativi delle opere e degli ambienti. Ecco perché i nuovi musei sono Genius loci: set in cui la composizione dell’immagine è speranza di tenersi vie di uscita dalla realtà, di spingere il pensiero a riconoscere disvelamenti divini. «L’immagine fotografica genera storie che nessuno può scrivere prima».

I «PROFESSIONISTI» dei musei – esperti o apprendisti – non appaiono di grande interesse. Il punctum, per Cotroneo, sono altre categorie di utenti: gli «esploratori», i «bighelloni» e i «sonnambuli», per dirla alla Floch. L’incompiutezza fotografica sorprende spettatori che osservano muri o che restano sulla soglia, che, sedotti dalle opere, le toccano o ne mimano le pose, che si voltano indietro o che, sdraiati su panche o divanetti, guardano soffitti. Se nelle mostre di Hopper capita di incontrare visitatrici affacciate alle finestre, nei musei di arte antica regna la sospensione o il ritorno indietro nel tempo. Qui il presente è «un passaggio inatteso», «una bonaria e sfocata eccezione».
Soli, in coppia o in gruppo, i nuovi visitatori si muovono con intermittenze della comprensione. Non sempre consapevoli, sono però risoluti a condividere. Tecnologie digitali e social network, come strumenti di esposizione del sé, hanno trasformato i musei che possiedono collezioni importanti e opere universali in beni di consumo incidenti sul Pil. Chiunque vuol farsi le proprie gallerie espositive. Il Genius loci si rivela nell’asintoto fra le curve irregolari e spesso imprevedibili dei visitatori e la linea retta dell’opera, che rinvia all’infinito il punto di incontro.

I MUSEI SONO LUOGHI di culto non perché banalmente meta di pellegrinaggi verso oggetti di culto, ma perché ambienti dei rapporti variabili fra l’immanenza concreta dell’opera (loci) e l’unicità del visitatore, per come ne avverte a pelle e traduce, a modo suo, i livelli simbolici, le tracce di trascendenza (Genius). Questa fotografia, sensitiva, ci risacralizza, per fortuna sempre in qualche cosa di diverso.