Cultura

Lo spazio pubblico dell’attivismo

Lo spazio pubblico dell’attivismoNew York, Street Art di Jr e Liv Bolinnew

Internet Dalle incursioni nei siti della polizia a Gezi Park, la storia del gruppo hacker turco «RedHack». Ovvero, il web come strumento di informazione e di organizzazione della protesta

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 26 settembre 2013

Sottotitolato in italiano dal team di traduttori di Infoaut.org, Red! arriva sugli schermi dei vostri computer al momento giusto. Prodotto dalla casa cinematografica indipendente Bsm, questo documentario dal ritmo incalzante ha infatti il pregio di addentrare lo spettatore, anche quello a digiuno di tecnologia, in uno dei terreni più inesplorati e allo stesso tempo qualificanti dei conflitti odierni: quello dell’hacktivism, termine derivato dalla commistione di due parole (hacking e activism) che individua nei network digitali un terreno di scontro e cambiamento sociale.

A reggere il filo rosso dei sessanta minuti di filmato ci sono le voci dei Redhack, crew di hacker comunisti turchi salita alla ribalta delle cronache per aver partecipato a giugno alla rivolta di Gezi Park. Data di fondazione 1997, questa formazione di hacktivisti aveva però già fatto parlare di sé in passato per il suo supporto alla causa curda e le sue intrusioni nei sistemi informatici del direttorato della polizia di Ankara.

Il suo exploit più clamoroso tuttavia era stato quello che aveva portato alla violazione della rete del Concilio Turco per l’Alta Educazione, dai cui database erano emersi decine di migliaia di documenti che testimoniavano quanto il fenomeno della corruzione fosse radicato nella gestione del sistema educativo del paese. Un attivismo costato caro a diversi membri dell’organizzazione, additati come terroristi dalla stampa locale ed arrestati dalle autorità con capi d’imputazione che prevedono pene fino a ventiquattro anni di detenzione.
Abilmente intessuta dal regista Mustafa Kenan Aybasti, la trama dell’epopea dei «RedHack» non viene però circoscritta alla sola infosfera turca. Al contrario la struttura dell’opera, pur prendendo le mosse dalla loro vicenda particolare, si dota di un ampio respiro narrativo ed ha l’ambizione di gettare uno sguardo approfondito sul variegato universo dell’hacktivism.

A fare da sfondo la controrivoluzione neoliberista e lo slittamento del sistema produttivo verso il paradigma postfordista da cui Internet emerge come nuovo campo di battaglia. Un terreno tutt’altro che pacificato e attraversato da un nugolo di acute tensioni: l’identità verificatasi tra economia globale ed economia di rete ha reso infatti il web un boccone succulento per stati, multinazionali ed organizzazioni criminali in competizione tra loro per assicurarsene il dominio. Uno scontro senza quartiere i cui primi target sono milioni di utenti ignari, la cui accresciuta dipendenza dai network digitali li rende facile preda delle mire di attori senza scrupoli, interessati a saccheggiarne i dati o a sviluppare regimi di censura e sorveglianza sempre più feroci e capillari.

Ma «dove c’è crudeltà, è legittimo ribellarsi», dice Sirine, una delle hacktiviste di RedHack. E se lo sviluppo della tecnologia ha posto le basi per rinnovate forme di sfruttamento, comando e controllo, deviarne il corso, sovvertirla e produrre nuovi strumenti di opposizione al potere è possibile. Quali sembianze dovrebbe assumere allora questa ribellione? Vi è un solo postulato che accomuna le differenti esperienze di hacktivism, da Redhack ad Anonymous passando per Wikileaks: tutta l’informazione deve essere libera. Nondimeno secondo gli hacker in rosso obiettivo primo dell’«hacktivism» è modellare l’opinione pubblica, utilizzando internet come rampa di lancio e vettore di propaganda.

Mandare off line i siti istituzionali della provincia di Sivas per ricordare il massacro degli intellettuali Aleviti consumatosi nel 1993; fare incursione nei server della municipalità di Istanbul per cancellare le multe inflitte ai cittadini; prendere possesso di portali web governativi e utilizzarli per diffondere messaggi a favore del movimento di Gezi Park; sono tutte pratiche per creare pressione sullo spazio pubblico dell’informazione e spezzarne l’equilibrio simbolico, matrice e collante delle rappresentazioni che il potere da di sé stesso.

Qual è stato infatti il colpo più audace messo a segno dai RedHack nella Turchia di Tayyip Erdogan? Aver hackerato l’idea che il popolo aveva dell’Akp. Dopo un decennio di dominio incontrastato in cui il partito islamista conservatore era sembrato intoccabile, un manipolo di attivisti è stato in grado di metterlo sotto attacco e ridicolizzarlo in rete. La cortina di invulnerabilità che lo avvolgeva si è fatta meno spessa e diradandosi ha lasciato spazio a tre parole, semplici e per questo potentissime: «Si può fare». Parole che senza dubbio risuonano martellanti nella testa dei ragazzi e delle ragazze di Istanbul, Ankara e Smirne che da mesi si stanno scontrando in piazza col regime di Ankara.

Considerati in patria alla stregua di eroi, alla popolarità dei RedHack fa da contraltare una repressione indiscriminata che non manca di mietere vittime innocenti. È il caso di Duygu Kerimoglu, studentessa universitaria arrestata con l’accusa di far parte dell’organizzazione di hacker e rilasciata solo dopo nove mesi di detenzione preventiva, nonostante l’assenza di prove a suo carico. Un episodio a fronte del quale gli autori del documentario lasciano cadere un secco interrogativo: chi è il terrorista? Un’autorità politica che nega le più elementari garanzie previste dallo stato di diritto o un gruppo di hacker che mette in luce come la corruzione venga eletta ad elemento strutturale del sistema? E ancora, com’è possibile che l’intrusione in un singolo sistema informativo, effettuato con l’intento di condividere le informazioni in esso contenute, venga considerato una forma di terrorismo, mentre la violazione sistematica della privacy operata da sistemi di sorveglianza globale (come Prism) sia ritenuta un mezzo per combatterlo?

La verità è un’altra. I RedHack, come Manning, Snowden o i ragazzi di Anonymous Italia non sono terroristi. La loro unica colpa è di aver fatto una scelta, schierandosi dalla parte dell’informazione libera. Una presa di posizione all’insegna di un vecchio adagio hacker, oggi più valido che mai: siamo noi a dover utilizzare la tecnologia e non viceversa. Hands on allora! Mettiamoci le mani sopra. Questo è il messaggio che attraversa Red! dal primo all’ultimo fotogramma.

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