La pandemia ci sta privando dello spazio pubblico, luogo precipuo della politica, della socialità, dell’uguaglianza. Stiamo vivendo forse l’ultimo capitolo di un processo che ha impoverito i nostri ambienti di vita: se il neoliberismo aveva avviato l’opera privatizzando città e piazze, il virus la completa. È dunque il momento di riflettere sulle qualità di luoghi e spazi comuni, e sul futuro urbano.

“Vivremo on line”, è l’epigrafica riflessione di un amico filosofo nei minuti in cui la detenzione domestica veniva estesa a sessanta milioni di italiani. Impareremo, daremo lezioni, lavoreremo, consumeremo, socializzeremo dall’interno delle mura domestiche (per chi una casa la possiede).

Lo spaccato di un futuro distopico e tecnofascista sta assumendo connotati concreti. Alla popolazione mondiale, reclusa in nome della propria sopravvivenza, sono sottratti gli spazi collettivi: scuole e aule universitarie, teatri e cinema, chiese e musei. Anche strade e piazze, boschi, mare e campagna, sono d’un colpo divenuti off limits, per tutti. Esclusi naturalmente gli addetti al mantenimento in vita del genere umano, dai medici agli agricoltori.

Ognuno ha provato la povertà di senso di una vita compresa (e compressa) nello spazio domestico. Esempio paradigmatico: la scuola online. Docenti in salotto e allievi nella cameretta: terminali domestici di un rapporto smaterializzato.

La mancanza di luoghi e ambienti pubblici, di socialità esercitata nello spazio comune, ha acuito il lavoro “ombra” gravante sulle spalle delle donne, ha acuito le divergenze sociali. Gli abbienti in case comode, ampio terrazzo e vista sul paesaggio. I subalterni invece in appartamenti mal concepiti, periferici, ammassati in blocchi disumani. Molti convivono con la tragedia delle invalidità, delle psicosi, dell’alcol, della violenza domestica.

Ma lo spazio pubblico non è solo il “fuori”. È viceversa il cuore pulsante di una società civile. Lo spazio pubblico è, secondo Simone Weil (1949), «esigenza dell’anima»: la partecipazione e l’uso dello spazio pubblico hanno valore sociale: per la Weil, il lusso di questi ambienti comuni (inteso come grandezza dell’architettura, sua ricchezza semantica, generosità dei volumi e delle superfici) dovrà essere universalmente godibile, dovrà giungere anche ai più umili.

Se Hannah Arendt (1958) ancorava la vita politica («l’agire insieme») alla sussistenza del «mondo comune», più recentemente Françoise Choay ha rimarcato che il valore simbolico dello spazio pubblico è capace di confermare «il nostro stato di cultura e le nostre identità umane nel tempo». Dunque, l’esistenza e il diritto allo spazio comune è garanzia di azione politica, di continuità culturale e antropologica.

L’urbanista Edoardo Salzano ha più volte sottolineato come il diritto universale allo spazio pubblico in Italia si sia conquistato attraverso il conflitto sociale e politico. La lotta, eminentemente femminista, innescò la scintilla: un decreto del 1968 (millenovecentosessantotto…) attribuiva ad ogni residente una quota minima di attrezzature pubbliche: giardini, scuole, teatri, ambulatori ecc.; e formulava amministrativamente tale diritto sotto forma di “standard urbanistici”.

Negli anni del neoliberismo, il decreto 1444/1968 è stato smantellato in favore di una governance urbana di matrice aziendalista. La dotazione minima in termini di servizi e attrezzature è stata ridotta a “monetizzazione” da investire in generica “riqualificazione urbana”(operazione che ha poi favorito l’innalzamento dei valori immobiliari per mano del pubblico). Il “decreto del fare” (2013) ha lasciato mano libera alle Regioni che possono oggi derogare dalle disposizioni che garantivano sul territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali.

Negli stessi anni, la città è stata privatizzata (anche) nella sua consistenza fisica: strade, piazze ed edifici demaniali, questi sistematicamente svenduti a vantaggio dell’interesse particolare. Rientra nell’esperienza comune l’erosione dello spazio pubblico all’interno delle cosiddette “grandi stazioni”, dove viaggiatori e pendolari sono costretti a percorsi di risulta tra una boutique e l’altra. Nelle piazze monumentali, ridotte a scenario ad uso dei consumatori, a palcoscenico per eventi mercantili, si manifesta esemplarmente lo slittamento – subdolo – dall’uso pubblico al “recinto” privato.

Oggi, isolati e reclusi, percepiamo con chiarezza il valore sociale e antropologico dello spazio comune e pubblico. Riteniamo perciò che sia urgente la riattivazione di un dibattito che possa condurre a una rivendicazione sociale del diritto allo spazio pubblico, e quindi politico.