Ogni volta che m’imbatto in alcuni degli scorci di Roma incisi da Giambattista Piranesi, di cui ricorrono i trecento anni dalla nascita, mi torna alla mente questo passo dedicato da Luigi Lanzi nel 1816 a un altro grande del Settecento veneziano, Canaletto: «Usa qualche libertà pittoresca, sobriamente però, e in modo che il comune degli spettatori vi trovan natura, e gl’intendenti vi notan arte».
Notarvi arte, è questa la sfida che ci si trova a combattere continuamente davanti alle vedute dipinte da Canaletto o incise da Piranesi: superare cioè quel primo approccio che porta a decantarne la loro somiglianza con il reale (la «natura» richiamata da Lanzi), a esclamare con giubilo infantile: «sembra una cartolina!», superarlo, dunque, e arrivare invece a intravvederne per l’appunto l’arte: il come quelle vedute sono state assimilate dall’artista, da lui tradotte, interpretate, profondamente risemantizzate.
Visitando la piccola mostra Piranesi Roma Basilico, elegantemente allestita da Luca Massimo Barbero al’ultimo piano di Palazzo Cini (Venezia, fino al 23 novembre), è stata questa la considerazione che, ineludibile e sottotraccia, mi ha accompagnato. Perché, dopotutto, è una questione che può toccare, e tocca, di tangenza forse, anche la fotografia, vale a dire l’altra protagonista di questa iniziativa veneziana. Accanto a venticinque incisioni di Piranesi – tratte da Le Vedute di Roma conservate nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe dell’Istituto di Storia dell’Arte della Cini – si trovano infatti qui esposte, in un dialogo serrato con esse, altrettanti scatti (alcuni mai visti) di Gabriele Basilico, il fotografo scomparso nel 2013 e a cui la Fondazione Giorgio Cini aveva commissionato, tre anni prima, un’apposita campagna (utilizzata solo in parte qui) in vista di Le Arti di Piranesi. Architetto, incisore, antiquario, vedutista, designer, l’evento tenutosi poi negli spazi di San Giorgio Maggiore durante la 12ma edizione della Biennale di Architettura.
Invitato a immergersi nel mondo piranesiano, a riesplorare attraverso il suo obiettivo gli stessi luoghi di Roma eternati da Giambattista tra il 1748 e il 1765 (qui nelle stampe eseguite a Parigi dalla Calcographie de Piranesi Frères agli inizi del XIX secolo), Basilico, milanese di nascita, architetto di formazione, aveva trovato il compito stimolante: «è stato – afferma in una intervista rilasciata nel 2012 al regista Amos Gitai, e trascritta nel volume (Edizioni Contrasto, pp. 168, euro 55,00) che dà il titolo alla mostra – molto interessante sul piano sociologico vedere come è cambiata la città». Vedere e, nello stesso tempo, documentare questo cambiamento; e la registrazione è uno dei portati dell’esperienza propria di Basilico: lo fece con Beirut, fotografata prima nel 1991 e, poi, vent’anni dopo, nel 2011, a città ricostruita; lo fece altresì con Colonia: in quell’occasione, era la fine degli ottanta, Basilico basò le sue riprese su quelle realizzate da August Sander nel 1945, a guerra appena terminata, quando le fotografie immortalavano una città tedesca ridotta a un cumulo di macerie, a un campo di rovine. Con Piranesi, invece, la necessità impellente è stata quella di ‘verificare’ Piranesi stesso, il suo metodo, la sua ‘visione’. Di dare conto sostanzialmente di quella sua «grande qualità, questa marcia in più, che era quella di saper enfatizzare lo spazio». Una dote che ben si addice a un artista che si presenta e firma perpetuamente come «architetto veneziano», la cui forza visionaria lo ha portato addirittura a dichiarare, quasi fosse stato un Bernini redivivo: «Ho bisogno di grandi idee, e credo che se mi si ordinasse il progetto di un nuovo universo, avrei il folle coraggio di intraprenderlo».
Nella incisione con la Veduta della Piazza del Popolo, ad esempio, la linea d’orizzonte, tenuta abbastanza alta, e le distorsioni prospettiche usate, portano il primo piano a inclinarsi pericolosamente verso il riguardante, che ha quasi la sensazione che tutto, per l’effetto di eccessiva gravità o di un improvviso movimento tellurico, stia per franare verso di lui, verso il margine inferiore del foglio. Anche la parte superiore è oltre modo esaltata, percorsa com’è da un tumultuoso gioco di nubi. Un effetto certamente debitore delle tele giovanili dell’amico Canaletto, quelle più espressive, della sua prima maniera: per citarne una tra le più famose.
Sono passati più di duecentocinquant’anni dai giorni in cui Piranesi percorreva Roma passo passo. Dice Basilico: «non sono riuscito a trovare tutti i punti di vista, anzi, ne ho trovati pochi, perché la città si è talmente costruita intorno allo spazio». Guardando le foto in bianco e nero del maestro milanese si rintraccia una sovrapposizione, tragica e caotica insieme, tra la Roma Antica, quella Moderna e quella Contemporanea.
Ma non solo. C’è anche, però, l’altra Roma, quella di Giambattista. «Piranesi – scriveva Luigi Ficacci nel catalogo della grande mostra ciniana del 2010 –, motivo del progetto, obbliga Basilico a rinunciare alla libertà compositiva, alla misurazione di sé rispetto all’oggetto spaziale e, globalmente, alla propria collocazione, perché oggetto, in questa occasione, non è lo spazio reale, ma la sua rappresentazione». Siamo quindi tornati alla dicotomia postulata da Lanzi del «trovarvi natura» o «notarvi arte».
Piazza San Pietro; Castel Sant’Angelo; la Piramide di Caio Cesto; il Pantheon; l’Arco di Settimio Severo: sono solo alcune delle ‘stazioni’ di questo confronto tra l’architetto incisore di ieri, Piranesi, con l’architetto fotografo di oggi, Basilico.
A differenza dei curatori dell’Enciclopedia Universale dell’Arte, che nel volume X del 1963 passarono dalla voce «Pietro da Cortona» a quella «Pisanello» con estrema leggerezza, cioè snobbando con la tipica spocchia di un certo accademismo un autore immenso come Piranesi, Marguerite Yourcenar, in La mente nera di Piranesi (1959-’61), aveva già compreso che «rispetto agli incisori che ’’hanno preceduto, Piranesi, nelle Vedute, si trova nella posizione che occupa oggi, fra i suoi più mediocri e pedestri colleghi, il grande fotografo che si serve da virtuoso del controluce, degli effetti di nebbia o di crepuscolo, di angolazioni insolite e rivelatrici».