Lo spazio della memoria
Intervista "Di pari passo con l'evoluzione dei fatti storici concernenti il Medio Oriente e Israele, ho cominciato a interessarmi al cinema"
Intervista "Di pari passo con l'evoluzione dei fatti storici concernenti il Medio Oriente e Israele, ho cominciato a interessarmi al cinema"
Nel tuo lavoro c’è sempre un intersecarsi di memoria individuale e memoria collettiva, di percorso personale/autobiografico e percorso della storia politica di una comunità. Per esempio in film recenti come Carmel o Lullaby to My Father ciò si dispiega in forma genealogica: genealogia personale (la storia di tua madre nel primo film e di tuo padre nel secondo) e genealogia storico-politica (la nascita di Israele). Nei tuoi film la memoria ha a che fare da un lato con qualcosa che è in movimento, di luogo in luogo, i temi dell’esilio e della separazione, e dall’altro con la costruzione, la decostruzione e la ricostruzione. Un movimento esterno e uno interno. Allora partiamo da questi tre plessi: la memoria collettiva e personale, il movimento, la costruzione/decostruzione/ricostruzione.
Anzitutto c’è una sorta di interferenza che mi riguarda ma di cui non sono responsabile. Vale a dire: io sono nato due anni dopo la nascita dello Stato di Israele, sono cresciuto e ho passato la mia giovinezza senza la presenza della televisione, come tutta la gioventù israeliana del resto. Ben Gurion trovava che la televisione fosse qualcosa di molto negativo per i giovani. Non c’erano delle immagini diffuse per “indottrinare”. Perciò sono cresciuto senza immagini. C’erano però immagini che potevo costruire da me, attraverso lo sguardo sulla natura, o, come immagini mentali, attraverso la letteratura, i libri che leggevo. Ma non c’era televisione. Fino al 1967, niente immagini riprodotte dalla televisione.
Una specie di “vuoto di immagini”. Forse iconoclastico, nessun “idolo” da adorare.
Un vuoto di immagini televisive, ma c’erano le immagini cinematografiche. Andavo in cineteca, ho visto le immagini dei grandi classici del cinema europeo. Ma le immagini che costruivo da me nascevano molto dalla musica: Gustav Mahler, Bach e anche dalle grandi opere letterarie, soprattutto tedesche e russe. Poi ci fu la guerra del Kippur, vale a dire un’immagine brutale che si intreccia con una esperienza personale, biografica, che ho raccontato in Kippur, film dedicato a Sam Fuller. Sono partito come soldato ed ero nell’elicottero che fu abbattuto dai siriani. Poi c’è ancora un elemento biografico, sono figlio di un architetto del Bauhaus, cioè di qualcuno che ha lavorato con Kandinsky, Albers, Gropius, Mies van der Rohe.
E anche questo lo racconti in Lullaby to My Father.
Esatto. E da questa “genealogia” deriva la mia tendenza, il mio grande desiderio di un “disegno” di astrazione. Sono tutte cose che ritrovo in me ma non dipendono dalla mia volontà. Ma di pari passo con l’evoluzione dei fatti storici concernenti il Medio Oriente e Israele, ho cominciato a interessarmi al cinema, ho cominciato a fare dei film. C’è un passaggio di potere, cioè tutti gli elementi che a partire dagli anni venti avevano poi accompagnato la nascita dello Stato di Israele, si depotenziano a partire dal 1977, e il potere passa alla destra, al Likud. E da allora fino ad oggi (a parte due brevi episodi, Rabin e Barak) mantiene il potere. Fin dall’inizio del mio lavoro di cineasta, con il film The House c’è una mia presa di posizione politica molto forte, che accompagna il passaggio, il cambiamento del paesaggio politico. Quindi ci sono da un lato degli elementi collettivi scanditi dalle grandi date dell’evoluzione politica in Medio Oriente, e di Israele, che corrispondono a certe date, a certe tappe, del mio approccio e del mio percorso cinematografico. Dall’altro ci sono dei punti “genealogici” che sono particolarmente determinanti: l’assenza di immagini televisive, l’eredità di mio padre e l’orbita “astratta” verso cui sono stato attirato (an- che nel mio rapporto con l’architettura), o anche il mio retaggio materno, il suo rapporto con la scrittura, la mia attenzione alle sue lettere, che poi sono state pubblicate. C’è una continuità genealogica e ci sono delle rotture, come la guerra del Kippur, e il passaggio di potere alla destra. È in questo quadro che mi sento di corrispondere alla tua sollecitazione: la dialettica tra il versante intimo, biografico e la forza del contesto pubblico, che per me ha una valenza soprattutto politica. C’è una grande mostra che sto preparando in questo periodo, e che sarà allestita al museo MNCA Reina Sofia di Madrid (il Museo dov’è esposta Guernica di Picasso), che è costruita proprio su questa dialettica (e si dipana in dodici stanze, in dodici stazioni, con installazioni, frammenti di video, documenti che riguardano mio padre e mia madre). Manuel Borjas, il direttore del Museo, teorizza che la nozione di astrazione è alla base di tutta la modernità, la linea che parte dagli anni cinquanta-sessanta, la linea dell’astrazione assoluta dell’arte moderna, la linea di Jackson Pollock, di Rothko. Lui trova che nel mio lavoro abbia un peso specifico, consistente, questo lavoro di astrazione, nella sua capacità di installarsi nel contesto. Questa dialettica sarebbe una fase ulteriore dello sguardo dell’artista, e Borjas trova che il mio sguardo di cineasta lavori come sguardo d’artista su questa linea, producendone insieme una continuità e una rottura. Ciò dipende dalla capacità di integrare l’astrazione nel contesto. E il contesto è da un lato il grande contesto memoriale, storico, di Israele e del Medio Oriente, e dall’altro il contesto, l’atmosfera personale, familiare, biografica, genealogica.
Questo legame forte con l’astrazione ha a che fare per te con la tua condizione d’artista, con un orizzonte personale, ma anche con un retaggio politico. Fino a che punto il tempo e la memoria “genealogica” incidono su un tale crinale?
Sì, c’è un forte interesse, continuo, sul contesto e sulla sua evoluzione, ma allo stesso tempo c’è un interesse per la forma. E la forma è una forma del tempo, un costrutto temporale. Ciò si vede bene nel mio nuovo film Ana Arabia. Cioè a dire, per evitare il “politicamente corretto” banalizzante, semplicistico, demagogico, c’è bisogno di installare la forma, di lavorare la forma. Se non si ha ben presente la forma si cade in una trappola, ci si può impelagare in una costruzione troppo didattica, che strumentalizza la Storia.
Mi pare di capire che la mostra di Madrid ha a che fare con una “grande memoria” e con un “grande luogo”, un orizzonte mentale e fisico allargato. Non è il primo lavoro tuo in questo senso. L’attenzione al “luogo”, l’installazione filmica “site specific” si ripercuote sempre nel tuo cinema che sembra sempre radicarsi in un luogo e amplificarlo nel tempo mentale. C’è sempre una interazione tra luogo e memoria, tra attuale e memoriale. Ora stai preparando un film, Tsili, che, oltre a derivare da un romanzo, mette al centro un luogo particolarmente potente, una foresta.
Sì, è così. Penso che il mio rapporto con i luoghi nasca dal contesto, sempre a partire da una presenza concreta, che si può situare, e che prende spesso una forma architetturale. Ed è lì che si installa la storia, privata e collettiva. Un sito, e un contesto, ha una propria storia. Dal mio primo film di finzione, Esther, per arrivare ad Ana Arabia, il luogo, il sito, è una sorta di silloge, di commentario, alla narrazione.
È come se nella tua visione sia sempre il luogo (e ciò in diversi “contesti” fisici, penso per esempio al tuo lavoro teatrale a Gibellina, in Sicilia, di cui sono stato testimone, Metamorfosi di una melodia, 1992) a produrre una sorta di “trasfigurazione”, ma anche una materializzazione, una concretizzazione, una incarnazione di un’“altra immagine”, fino ad allora invisibile, che emerge dal luogo stesso, che è, certo, l’immagine “del luogo stesso”, ma anche l’immagine della tua memoria, una tua immagine mentale.
Certo. A proposito della nostra esperienza comune a Gibellina, mi ricordo che sono arrivato in Sicilia, invitato da Roberto Andò, da Ludovico Corrao e da te, e ho visto la documentazione del lavoro che aveva fatto l’anno prima Ariane Mnouchkine. Lei è una regista di cui rispetto il lavoro teatrale, ma fece la scelta di ricostruire in Sicilia il teatro che aveva in Francia alla Cartoucherie, nei giardini di Vincennes. Mi sembrò molto strana quella scelta: trasferire tutta la compagnia in un altro luogo, in Sicilia, e restare però ermeticamente chiusa nel luogo di partenza. La prima cosa che ho chiesto fu di sbarazzarsi di una costruzione posticcia che replicava un luogo teatrale predisposto. Allora mi fu chiesto di che luogo avessi bisogno. Risposi che volevo un anfiteatro, ma molto primitivo, fatto di terra, e di disporlo “a fronte” di quel grande gesto di Burri che è il Cretto bianco di Gibellina. Volevo utilizzare il paesaggio della Sicilia “insieme” a una memoria, che era quella del Cretto, costruito sulle fondamenta del paese distrutto dal terremoto, e che anzi ridisegnava, in modo astratto, la sua immagine memoriale e insieme la reincarnava. Volevo situare il racconto di Flavio Giuseppe, la storia della guerra giudaica, dentro la memoria siciliana. Creare una dia- lettica, un’intersezione, tra la memoria di due luoghi lontani nello spazio e nel tempo, entrambi rasi al suolo.
La Masada dell’antichità e la Sicilia moderna, il terremoto di Gibellina…
Sì, e anche la Sicilia contemporanea. Era il 1992, l’anno degli assassinii di Falcone e Borsellino. Così come la Sicilia atavica: i canti dei pescatori, dei “tonnaroti” siciliani, per esempio. Bisogna capire che ci sono sempre delle tracce che emergono dai luoghi stessi. Era il mio primo lavoro teatrale, ma quello che mi interessava in quel lavoro si ritrova in tutti i film che ho fatto. Le tracce di memoria nei luoghi e il contesto politico, e il mutare delle forme.
*LA RIVISTA
È in uscita a luglio il n. 25 della rivista «Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni», diretta da Roberto De Gaetano e pubblicata da Pellegrini Editore. Il numero, dedicato al tema «Memoria», si apre con una conversazione con il regista Amos Gitai, a cura di Bruno Roberti, di cui pubblichiamo un estratto. Il volume comprende, tra gli altri, saggi di Stefano De Matteis (Memoria rituale e riti della memoria), Lucia Cardone (Remmemorarsi. «L’amore molesto» e il corpo della madre), Barbara Grespi (Statue in movimento. Divismo, attorialità e memoria dell’antico), David Bruni (Una meditazione sulla memoria: «La morte rouge» di Erice), Giulia Fanara (La cenere e la neve. Sull’ultimo Resnais), Gianluca Pulsoni (Memoria e questione armena. Su una sequenza di «Uomini anni vita»), Ivelise Perniola (A futura memoria. A proposito de «Le tombeau d’Alexandre»), Sara Pesce («Interview Project». Memoria, paesaggio, esperienza, web), Alessio Scarlato (Un’icona della memoria), Marcello Walter Bruno (Memoria e fotografia), Francesco Parisi (Ricordi protesici. Fotografie e false memorie), Federica Muzzarelli (Memorie cinefotografiche. La sindrome archiviale della modernità), Enrico Menduni (Napalm Girl).
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