Mica facile capire qual è l’interpretazione «giusta» di Transición II di Mauricio Kagel. Anzi, l’interpretazione «giusta» non esiste, non può esistere. Intanto perché di nessun testo musicale esiste un’interpretazione «giusta», checché ne pensino i filologi accaniti. E poi per il semplice fatto che la partitura – per pianoforte, percussioni e due nastri magnetici, scritta nel 1959 – consiste in parecchi fogli di istruzioni dove, per esempio, si dice «questo è un do, puoi suonarlo puoi non suonarlo puoi picchiare la mano su una parte qualsiasi dello strumento». Insomma si tratta di indicazioni per l’improvvisazione o composizione istantanea. Tutte le versioni saranno diverse.
La versione che ne danno il pianista Francesco Prode, il percussionista Pietro Pompei e il regista dei suoni sintetici Tommaso Cancellieri in una serata speciale del festival ArteScienza (quest’anno con un titolo apposito che è Ecoforme) al Goethe Institut di Roma è diversissima, anzi opposta, a quella più storica di tutte registrata su etichetta Time nei primi anni ’60 del secolo scorso dal pianista David Tudor e dal percussionista Christoph Caskel. Quella puntava su sonorità acri e su un’atmosfera molto rarefatta, su un quid di razionalismo e uno di astrazione. Questa è drammatica, eloquente, ha uno slancio «narrativo». Prode, uno dei pianisti super oggi sulla scena, non ha mai nascosto di considerare rivoluzionario lo spirito romantico, come in effetti è stato ai tempi di Schubert e Chopin.
L’inizio è sognante. Pompei suona soltanto sulle corde del pianoforte (come da indicazione dell’autore). Poi si ascoltano sequenze di violenti accordi dissonanti, assai vicini ai cluster. Qui Prode concede più del suo solito una parte del suo estro ai mirabili «cliché» avant-garde degli anni ’60 e ’70. E gli «effetti» (di questo si tratta) dell’elettronica sono più avvolgenti che integrati.

SI PROCEDE quasi esclusivamente sul grave e si cercano contrasti, conflitti. Forse teatro. Sicuramente dramma. Splendido. Con uno svolgimento lineare per quanto lo permetta un testo (il meno testuale che si possa immaginare) che certo non ha le premesse teleologiche di tanta letteratura musicale.
Ma adesso arriva Karlheinz Stockhausen e il suo celebre fantasmagorico Kontakte (1959-60) per pianoforte, percussioni ed elettronica. A dire il vero l’elettronica andrebbe citata per prima, dato che l’idea che regge tutto il lungo brano va rintracciata nella visione elettronica della musica più di quanto si avvalga di suoni acustici. Stessi interpreti e di nuovo la loro luminosa propensione alla fantasia e alla ricchezza dei timbri e delle proiezioni sonore. Il magnifico strumentario delle percussioni, che anche il pianista deve suonare – e qui la partitura è esattissima nella sua notazione -, è vastissimo, stravagante, futuristico. Sono musiche, queste di Kagel e Stockhausen, che appaiono del tutto contemporanee. Si ascoltano di rado e raramente con i superbi accenti di questi interpreti.
Tre giovani autori viventi e uno morto giovane, tutti italiani, in un’altra serata del festival. Protagonista il Quartetto Maurice (Georgia Privitera e Laura Bertolino, violini, Francesco Vernero, viola, Aline Privitera, violoncello), come sempre superlativo per la sonorità tersa, l’acume dell’analisi e l’intensità della passione conoscitiva. Sceglie di aggiungere l’elettronica ai quattro archi. È il gruppo cameristico di punta nel panorama italiano, si potrebbe dire «di riferimento» proprio perché si occupa delle opere nuovissime e approfondisce il concetto di contemporaneità.

IL QUARTETTO si dispone al centro della bella sala dell’auditorium del Goethe, il pubblico è tutt’attorno. Fausto Romitelli, che oggi avrebbe 59 anni (muore nel 2004), in Natura morta con fiamme (1991) apre con un minuto di «suoni muti» e procede con perturbanti episodi hendrixiani. Grandissimo autore, mette forse un po’ in ombra i lavori di Claudio Panariello – di cui colpisce però la prima parte di «stasi riflessiva estrema» del brano -, Zeno Baldi e Mauro Lanza.