Una piccola mostra, allineata lungo una parete. Trenta metri, non di più, due monitor, sessantadue fotografie in bianco e nero. Una piccola mostra, che nel gigantismo dell’Aula del Tempio, la ‘pancia’ del Museo del Cinema di Torino, rischia di passare inosservata o di venir sottovalutata proprio per la modestia delle sue dimensioni. E invece, a quella parete bisogna avvicinarsi fino a mettere a fuoco, prima ancora delle immagini, il titolo, «Gillo Pontecorvo: lo sguardo umano».
La piccola mostra, aperta fino al 3 febbraio, rende infatti omaggio al regista nel centenario della sua nascita. E lo fa tramite una selezione tematica dei materiali del Fondo Pontecorvo, donato nel 2013 al Museo dalla moglie di Pontecorvo, Maria Adele ‘Picci’ Zino, e da Simone, uno dei tre figli. Il Fondo comprende oltre mille fascicoli che testimoniano la vita e il lavoro di Gillo: partigiano della Resistenza, giornalista, militante nelle file del PCI; uomo di cinema che muove i primi passi girando documentari politici con il maestro olandese Joris Ivens, poi i trentasei minuti di Giovanna, 1955, un episodio della coproduzione internazionale La rosa dei venti, e tra il 1957 e il 1979 cinque film; l’intellettuale mai sazio di idee, curatore dal ’92 al ’96 della Mostra di Venezia; il fratello amatissimo di Bruno, fisico nucleare che si trasferì in Unione Sovietica nel 1950 e lì morì nel 1993. L’inventario del Fondo verrà pubblicato sul sito del Museo, con l’obbiettivo di digitalizzarne i documenti e renderli accessibili online. Adesso anche le immagini lungo la parete sono a fuoco: foto di scena, provini, foto di set, per raccontare il lavoro di Pontecorvo, dove lo sguardo umano si sovrappose sempre allo sguardo politico, fermando la propria attenzione sugli oppressi, che fossero le donne e gli uomini sfruttati nelle fabbriche, o i popoli vittime della schiavitù coloniale e della ferocia delle dittature.

Se il regista privilegiò non di rado la scelta di servirsi di attori non professionisti, ad esempio in Giovanna, sul fronte opposto chiamò davanti alla macchina da presa non pochi mostri sacri. Lo provano gli scatti che ritraggono Yves Montand e Alida Valli in alcune sequenze di La grande strada azzurra (1957); i quattro fogli di provini per i costumi di scena di Edith/ Nicole, protagonista di Kapò, 1960, interpretata da Susan Strasberg; Marlon Brando al massimo del suo splendore e all’apice del suo pessimo carattere, immortalato durante le riprese di Queimada, 1969; il Gian Maria Volonté/ Ezarra di Ogro, 1979, cronaca dell’attentato mortale ad opera dei separatisti baschi contro Luis Carrero Blanco, capo del governo franchista. Nel cast di La battaglia di Algeri, 1966, compare un solo professionista, Jean Martin, cioè il colonnello Philippe Mathieu. Coloro che furono chiamati a vestire i panni di Alì La Pointe e dei suoi compagni di lotta, degli abitanti della casbah, delle donne che trasportavano sotto le tuniche le bombe per collocarle sui luoghi degli attentati, dei bambini, dei cittadini francesi, mai avevano avuto a che fare con il cinema. Pontecorvo affermò in diverse circostanze: «La direzione degli attori è una delle cose che mi interessa di più, e questo interesse è moltiplicato dalla mia mania per la faccia giusta, per la corrispondenza anche fisica con il personaggio, per la quale rinuncio molto spesso a quegli strumenti molto più raffinati e utili che sono gli attori professionisti». Non c’è una faccia sbagliata nelle scene della Battaglia, e la mostra ne fornisce prove eloquenti: il viso tragico e duro di Brahim Haggiag/ Ali La Pointe e quello di una comparsa femminile seminascosto da un velo bianco ricamato; la smorfia di sfida della ragazzina, in piedi su una scalinata della casbah; il grugno crudele e ottuso dei soldati di Mathieu, che gli occhiali da sole accentuano. Altri contributi, tanto rari quanto importanti, li forniscono i filmati di archivio, selezionati e organizzati da Simone Pontecorvo.

Su uno dei due monitor scorrono i primi piani di un bellissimo Gillo non ancora trentenne, aspirante attore per Il sole sorge ancora, di Aldo Vergano, 1946. A seguire, i provini per il ruolo della Edith/ Nicole di Kapò. Voce roca, lunga treccia, volto magnifico, Claudia Cardinale ventenne precede Susan Strasberg che, ridendo, tenta di mordere una mano al regista. Sul secondo monitor, spezzoni girati nel corso di vari sopralluoghi, interviste, frammenti sonori testimoniano di proposte rifiutate, di progetti finiti in un cassetto. Ricorda il figlio Marco, direttore della fotografia e di lungometraggi tra i quali Pa-ra-da, Lampedusa, Nero a metà: «Se non era convinto fino in fondo, se non ci si vedeva dentro, papà si tirava indietro. Successe con Mission, Mr Klein, Io la conoscevo bene; con un film sulla mafia che, a un passo dal via, lui giudicò superato da nuovi fatti di cronaca». Rimasero idee Joshua. I tempi della fine, sulla vita di Cristo; Rosa Luxembourg, Il peccato, Confino Fiat; L’uccello dipinto, da un romanzo di Jerzy Kosinski; una sceneggiatura sull’arcivescovo Romero, assassinato dagli squadroni della morte salvadoregni. Identico destino toccò a Wounded Knee, colossal schierato dalla parte dei nativi americani. Marlon Brando propose a Pontecorvo di dirigerlo, nonostante le vecchie e furibonde liti ai tempi di Queimada. Nulla se ne fece, perché l’imprevedibile Marlon, scavalcando la produzione, decise di riconoscere alle organizzazioni indigene il diritto al controllo ideologico della sceneggiatura. La fuga delle major fu immediata.

Lo schermo del monitor restituisce poi la memoria del quadriennio di Pontecorvo come curatore della Mostra di Venezia. Voleva, Gillo, una Mostra capace di guardare alle nuove generazioni di registi e al medesimo tempo di tornare ad essere luogo eletto del cinema d’autore. Voleva che il confronto e la discussione con il pubblico colmasse lo spazio vuoto tra lo schermo e la platea; che il Lido rinascesse ospitando concerti ed eventi, rassegne, grandi registi e grandi attori. I minuti finali del video montato da Simone Pontecorvo dicono che ci riuscì. Sul palco della Mostra, in mezzo alla gente, al tavolo collettivo di un ristorante, ‘sfilano’ Jack Nicolson, Dustin Hoffmann, Denzel Washington, Nicole Kidman, Abel Ferrrara, Robert Altman, Jane Campion, Robert De Niro; un po’spaesati, in giro per il Lido, si vedono i giovani di cui Pontecorvo intuì il futuro: Mario Martone, Paolo Virzì, Neil Jordan, Julian Schnabel, Guillermo del Toro. Negli anni di Gillo, il cinema dell’Estremo Oriente vinse il Leone d’oro con Zhang Yimou, Tsai Ming-liang, Tran Anh Hung. Uscito dal Museo, mentre torno a casa, mi chiedo quante volte ho visto La battaglia di Algeri. Stasera o domani sarà la settima volta. Merito anche di una piccola mostra, allineata lungo una parete. Trenta metri, non di più, due monitor, sessantadue fotografie in bianco e nero.