Occhi azzurri quelli di Santi (Santiago) Palacios (Madrid 1985, vive a Barcellona quando non è in giro per il mondo) che vedono storie di un’umanità a rischio, restituendone la dimensione concreta del dramma.

A Roma, in occasione di Fotografia, giornalismo e migrazione, appuntamento del ciclo Diálogos organizzato dall’Istituto Cervantes, ha parlato del suo lavoro di fotogiornalista – l’autore collabora con agenzie di stampa e testate quali Associated Press, Time, Cnn e Sunday Times – che gli è valso numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Nacional de Fotoperiodismo (Spagna) 2015 e 2016 e il World Press Photo 2017 nella categoria General News (Second prize singles).

Left alone, la foto che ha scattato il 28 luglio 2016 nel Mediterraneo, lungo la rotta per l’Italia, ritrae la ragazzina undicenne che cerca di consolare il fratello: due ragazzini nigeriani la cui madre è morta in Libia, durante la traversata del Sahara. Secondo Frontex nel 2016 181mila rifugiati sono arrivati in Italia dal Nord Africa, di cui l’Unicef denuncia che 25.800 sono minori non accompagnati. La crisi del Mediterraneo, da Lesbo a Lampedusa, è anche l’obiettivo principale del lavoro di Palacios con l’emergenza migranti di cui è testimone nelle diverse fasi, spesso prendendo parte in prima persona alle azioni di salvataggio. Numeri e statistiche diventano volti, corpi che non possono e non devono essere ignorati.

Partiamo dal concetto di tempo, c’è una certa analogia tra l’immediatezza del momento del salvataggio e lo scatto fotografico…

In termini di soccorso, il tempo è importante: stabilisce la differenza tra la vita e la morte. Ci sono persone che non resistono molto in acqua, sia per le temperature rigide che per stanchezza. A questo si deve aggiungere anche il fatto che c’è chi non sa nuotare. Quanto alla fotografia, dipende molto dal tipo di lavoro che si sta facendo. Se si lavora per un’agenzia internazionale, cosa che mi capita abitualmente, il tempo è fondamentale perché se le immagini non entrano nel loro circuito entro le 24 ore vengono subito dimenticate. Non sono d’accordo, ma è così.

In altre occasioni, ha affermato che le foto più significative sono quelle che non ha scattato, sia perché coinvolto in prima persona nell’azione di soccorso o, in altri casi, perché non erano etiche…

Direi che si può sintetizzare affermando che tutti noi fotografi vorremmo spesso che i nostri occhi fossero delle macchine fotografiche. Vediamo tutto, ma non tratteniamo la maggior parte delle immagini. I momenti più difficili e complicati spesso non vengono fotografati proprio perché quello probabilmente non è il momento adatto in quanto ci sono altre priorità. Altre volte, le immagini più forti non vengono scattate, o comunque non verranno pubblicate, per ragioni etiche, politiche o di sicurezza.

In che senso sicurezza?

Soprattutto per la sicurezza della persona ritratta. Noi fotografi ci prendiamo grandi libertà nei confronti dei soggetti che immortaliamo. Spesso le persone, esuli o migranti hanno problemi di sicurezza nel loro paese, per cui ci viene detto chiaramente di non pubblicare le immagini. Altre volte lo s’ intuisce osservando la persona o la situazione.

Lei si è laureato in sociologia, cosa l’ha spinta verso la fotografia?

Sì, ho studiato sociologia. Fin dall’inizio sapevo che avrei voluto lavorare in ambito internazionale su tutto ciò che riguarda il conflitto e mi sembrava che la sociologia fornisse gli strumenti più utili per analizzare e interpretare il campo in cui desideravo operare. Tra l’altro c’è un ramo di quella disciplina che è molto più direttamente collegato con la fotografia: il fotogiornalismo è la migliore espressione della sociologia applicata.

Parlando del rapporto con l’estetica – perché c’è innegabilmente un lato estetico anche nel dramma che, poi, è anche il motivo per cui lei ha avuto moltissimi riconoscimenti internazionali – dentro di sé, nel momento in cui ai scatta l’immagine, c’è questa consapevolezza?

All’inizio, provenendo dalla sociologia, la componente estetica non mi interessava per niente, ma poi lavorando con il linguaggio visuale mi sono accorto che era importante, qualcosa che equivale, in fondo, al saper scrivere bene. Con la fotografia si scrive attraverso la luce, ma è necessario farlo con cura. Senza questa componente la nostra fotografia non serve a nulla, perché non avrebbe grande visibilità. Allo stesso tempo, l’estetica priva di contenuto non trasmette nulla, mentre il mio obiettivo è propagare sempre delle emozioni.

Rispetto, invece, al suo prendere parte anche all’azione, che sia sul fronte o in mezzo al mare con i soccorritori, qual è stato il momento più difficile che ha vissuto?

Credo che il momento più difficile sia quando sono a casa. Molte persone con cui ho avuto a che fare durante i soccorsi mi scrivono raccontandomi come stanno e chiedendomi aiuto. Ma non posso aiutare tutti, perché ho anche altre preoccupazioni che riguardano la mia vita. È una sensazione di frustrazione. Invece, durante i soccorsi, sulla motovedetta o sui barconi, pur avendo a che fare con chi non ce la fa, con persone che muoiono, è un po’ come il lavoro del medico. Ho imparato a non portarmi quel dolore a casa.

Ci sono dei fotografi del passato e del presente che lei considera dei mentori?

Ho imparato molto anche dai miei compagni di viaggio che sono molto diversi tra loro, alcuni sono famosissimi come James Nachtwey, con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Da piccolo, non mi sarei mai sognato che avrei avuto questo grande onore! Del passato certamente autori come Eugene Smith e Robert Capa. La fotografia si impara sia guardandola che producendola.

Ha citato Nachtwey, considerato il più grande fotografo di guerra contemporaneo: cvi può raccontare un aneddoto del suo incontro?

Ho il ricordo di quando, nel 2015, eravamo nel Mar Egeo a 6 gradi sotto zero. Erano le 6 del mattino e l’unico che stava immerso nell’acqua fino alle spalle era James. Un uomo di settant’anni, mentre io che avrò avuto ventisette o ventotto anni soffrivo il freddo! Poi un giorno me ne stavo sulla spiaggia, ero un po’ giù di morale e lui mi si avvicinò chiedendomi cosa succedeva. Gli dissi che non ero molto soddisfatto del lavoro che stavo facendo e che avevo la sensazione che lo avrei perso senza riuscire a pubblicare nulla. Lui mi guardò, mi sorrise e mi disse: «per prima cosa questa sensazione io l’ho sempre avuta per tutta la vita. Secondo, questa è una carriera lunga e dura. È come suonare il violino, richiede tantissimi anni di studio fin da quando si è bambini. Quindi, lavora ragazzo mio!».

C’è una certa complicità tra i fotogiornalisti nelle situazioni più critiche?

Molta. Siamo una famiglia, la famiglia dei fotografi!