I film come Ariaferma, densi, spessi, stratificati come murature, tutti in preda a una dialettica interna che sfuma, anzi trascende verso il riverbero, il bisbiglio, il sibilo segreto, terreo, tufoso delle cose, tra le cose, tra i volumi, metri cubi di spazio (cinematografico); si sedimentano nel tempo, detriti di materia immaginativa – già all’inizio, il costone, la nebbia, il canto corale che s’espande vaporoso, cioè gli elementi costitutivi dell’immagine –, caduti dai muri scalcinati e depositati nel tempo, e non smettono di dire, di risuonare anche dopo le prime visioni in sala.

È IL CINEMA di Leonardo Di Costanzo che già nell’Intervallo aveva chiarito i propri presupposti: un cinema metafisico, in una prima accezione, che si rivolge cioè verso il proprio interno e si nutre delle fibre vegetali e terrose, degli atomi fotosensibili di cui è fatto, di volumi germinanti, ruderi, giardini soffocati dalla malerba. E costituendosi così in modo autogeno, cinema che guarda a se stesso e prende da se stesso la sostanza per esistere, passa a essere cinema metafisico in una seconda accezione: cinema al di là della fisica, della realtà conosciuta, sperimentata. Una dimensione assoluta, simbolica, anche ineluttabilmente simbiotica pur nella rovina, nelle spoglie, in cui l’umano si confronta con un’idea concreta di spazio (consunto) e di tempo, e con le sue paure, i suoi desideri, i suoi sensi di colpa. Penso a Stalker di Tarkovskij – ma lo stesso si potrebbe dire di Solaris –, tra i cui ruderi e la vegetazione esorbitante, dentro una dimensione endogena e fuori dal mondo, i personaggi cercavano di risalire alle radici del proprio errare.
Ma in Ariaferma il piano è sensibilmente più umanistico, più etico di quanto non lo sia quello tarkovskiano, più concentrato su questioni filosofiche, anzi teosofiche. Così il carcere di Mortana, oltre i propri confini inchiavardati, oltre alla sua realtà, è spazio a sé, spazio cinematografico, qualcosa come una Fortezza Bastiani in cui s’attende in eterno non si capisce più cosa, s’è perso il senso stesso dell’attesa, e allora non si può che attendere alla propria dolorosa, contraddittoria umanità, e dove i personaggi sono chiamati a confrontarsi di continuo tra reticenze, scontri, drammatici avvicinamenti.

LEONARDO DI COSTANZO sarà a Bari con il suo Ariaferma, al Teatro Kursaal Santalucia stasera alle 20.30 per la rassegna «Registi fuori dagli scheRmi», occasione per tornare – anche attraverso le parole dell’autore – su quello che è senza dubbio uno dei film dell’anno: terra desolata, sbrecciata, spesso scandita, involata da un jazz franto, acuminato come cocci o coltelli, ferroso come sbarre di prigione. Palcoscenico quasi allucinato per quanta livida umanità vi transita, su cui si svolgono la contesa e l’intesa mai così intense, quasi fosse danza, walzer dei sentimenti, risentimenti, di due attori straordinari, Tony Servillo e Silvio Orlando, e dei loro personaggi, Gaetano Gargiulo e Carmine Lagioia (senza dimenticare la mutria, il ghigno cagnesco di Ferracane-Coletti e poi almeno, occhi bambineschi, spalancati, Striano-Cacace, la sottesa contrizione di De Francesco-Buonocore, e Pietro Giuliano, Fantaccini confuso, forse ormai perso, fagocitato dal nulla in attesa famelica fuori da Mortana), che chiedono l’uno all’altro la conferma alla propria umanità. Coercitore e coartato che cercano costantemente di constatare i margini d’azione che hanno per aggirare la meccanica della coercizione, per riconoscersi, forse, ancora umani, nonostante le colpe e le attenuanti. E quando ci riescono il film arriva a vette vertiginose, apnee, inquadrature serrate, tese: uomini chiusi di nuovo nelle celle, i loro volti scolpiti in una solitudine senza rimedio, nello spaesamento, invasi da luci macilente, morenti e dal ritmo del battito di mani che fa vibrare quello che può essere considerato il primo finale del film, e forse uno dei più bei finali – pur senza esserlo in realtà – visti negli ultimi anni.

POI CE NE SARÀ un altro, altrettanto bello, dopo che un senso di pietas, un’aria ferma, slavata lì nell’atrio adibito a orto, avrà quasi estirpato le erbacce (torna uno scenario caro a Di Costanzo e cruciale per il suo cinema: le gramigne sulle rovine, la vegetazione spontanea che adorna i laterizi, gli atri) e dopo che Gargiulo si sarà accostato per un momento a Lagioia. E cos’è, da dove arriva, se non da qualche anfratto remoto dell’essere o dell’essere stato, l’espressione di Silvio Orlando quando s’accorge che finalmente Gargiulo lo riconosce sia pure per il momento e nonostante tutto, e lo riconosce semplicemente quale persona? Ecco, quel volto, anche solo quel volto, quello sguardo attonito che è dentro il film ma che sfonda il quadro e si protende nelle vite altrui, nelle vite di sempre, nel doloroso errare di tutti alla ricerca di espiazione, di perdono, di speranza, vale, può valere un film intero e qualcosa di più.