«Non ho scelto di fare questo mestiere, in qualche modo mi sono lasciata trasportare dagli eventi, dalle combinazioni della vita… E mi sono ritrovata a fare forse il più bel lavoro possibile, quello di immaginare  mondi diversi, cercando di dar loro una forma e un senso». Così Antonietta De Lillo sintetizza come meglio non si potrebbe il suo percorso artistico, professionale, esistenziale e anche morale. Si, perché la regista, fotografa e produttrice napoletana è una figura anomala nel panorama cinematografico italiano proprio per la sua capacità/vocazione a rendere corpo unico forma e contenuto, sperimentazione e racconto, opzioni tecniche e sguardo sulla realtà. E da questo punto di vista il suo ultimo lavoro La pazza della porta accanto è esemplare, a cominciare dalla sua genesi, la scelta cioè di tornare su una grande intellettuale italiana come la poetessa Alda Merini.

A distanza di quasi vent’anni da «Ogni sedia ha il suo rumore», hai recuperato il prezioso materiale «rimasto nel cassetto» della lunga conversazione avuta con Alda Merini nella sua casa milanese nel giugno del 1995. E «La pazza della porta accanto» è un videoritratto che restituisce integralmente quell’incontro.

Ho sentito che era arrivato il momento di recuperare quel materiale dagli archivi della Megaris. Il passato lo accudisco mentre guardo avanti e, soprattutto, mentre vivo la difficoltà del presente. È stato come se ritrovassi un pezzo di memoria che ho già usato. Ho visto il primo documentario breve su Alda Merini del ’95 come un’introduzione, ho voluto riprendere un discorso interrotto, si trattava di riposizionare il cosiddetto «found footage». La morte di Merini non ha influito sul mio progetto che tra l’altro è nato quando era ancora viva, è stato più che altro un atto di fede, volevo catturare la poetessa con la forza del cinema che è un’arte collettiva che parla della realtà. Per me Merini, Fulci, Novi non muoiono mai, il nostro cinema rimane, la loro testimonianza resta, il loro stare al mondo fa il cinema della memoria, il loro insegnamento mi rimane, il cinema è memoria.

Napoletana ma «emigrata» tanti anni fa. Quale è il tuo rapporto con la città oggi?

Prendendo come esempio proprio la proiezione di La pazza della porta accanto a Napoli, mi ha fatto molto piacere trovare l’affetto e il calore di un pubblico di diverse generazioni. Il mio rapporto con Napoli è molto rispettoso, Napoli o la ami o la rinneghi. Io vivo a Roma da tanto ma ho conservato un legame forte con la mia città d’origine anche se non è facile: mi sento un po’ in colpa, ma riesco a guardarla dal di fuori. Due cose mi hanno sempre «ossessionata»: cosa vuol dire essere napoletana e essere regista donna. Li considero dei privilegi.

A proposito di registe tu sei una delle protagoniste del documentario «Registe» dedicato alle donne dietro la macchina da presa. Cosa significa per te essere donna e fare cinema?

Non mi sono mai riconosciuta negli anniversari obbligati come la festa della donna, o nei movimenti femministi; preferisco che il mio cinema sia considerato femminile non femminista, ho condiviso certe lotte ma a volte non mi piacevano i toni. Non sono d’accordo con tutto ciò che ci mette in una situazione di nicchia al ribasso, mi piace il percorso fatto per arrivare alla parità, c’è ancora troppa aggressività contro piuttosto che l’impegno per farsi riconoscere. In questi anni abbiamo assistito al ricomporsi della donna-oggetto, siamo tornati indietro, c’è stata una regressione culturale. La donna dovrebbe essere considerata come essere umano, un incontro tra forma e contenuto. Nel cinema ci sono molte storie al femminile, ma si fa ancora fatica a riconoscere la complessità professionale di questo lavoro.

Dopo i primi film, «La casa in bilico» (1986) e «Matilda» (1990 realizzati insieme a Giorgio Magliulo col quale hai fondato la società di produzione Megaris, hai proseguito da sola. Un percorso indipendente, difficile, poliedrico, tra documentario e finzione.

Ho fatto i film che sentivo di fare, ho raccontato le storie che volevo raccontare, ho perseguito obiettivi precisi proteggendo con tenacia e orgoglio la mia «invisibilità». È quella che però mi ha fruttato negli anni l’attenzione della critica e di una consistente fascia di spettatori.

E ora è arrivato anche il riconoscimento del Bergamo Film Meeting che ti ha dedicato una retrospettiva completa del tuo cinema …

La retrospettiva non può che farmi felice tanto più che riguarda anche altre registe europee, racchiude un percorso lungo e articolato. Ho fatto una carriera «nascosta», la mia «invisibilità» ha caratterizzato tutto il mio percorso. Mi sento più una cineasta «acrobata-funambola» col gusto del pericolo che una regista vera e propria. Un festival rigoroso e di qualità come quello di Bergamo ha il pregio da una parte di far conoscere un percorso e una memoria, dall’altra rende visibile ciò che è invisibile.

Ti sei specializzata anche nel videoritratto, e da qualche anno stai sperimentando il film partecipato.

In Italia sono stata un po’ la pioniera del videoritratto , perché già ai tempi della Megaris ho capito che col metodo del montaggio in Avid quando eri costretto a girare molte ore di materiali e li dovevi vedere tutti, si poteva fare di necessità virtù; scrivi la sceneggiatura durante il montaggio, costruisci il racconto con la tecnologia. In quanto al film partecipato ho sperimentato Il pranzo di Natale con la rete, il veicolo digitale. E ora è quasi pronto Oida (Oggi insieme domani anche) il cui tema è un’inchiesta sull’amore oggi. Si tratta di condividere il racconto di più sguardi attraverso la rete, tutti possono dare dei contributi su un tema, è un meccanismo di condivisione e scambio. E con questo spirito ho incoraggiato il percorso autonomo del corto animato di Maria Di Razza Forbici, uno dei frammenti del film, che in particolare denuncia la violenza sulle donne. Sta avendo molto successo in vari festival internazionali ed ha avuto una segnalazione nell’ambito dei Nastri d’Argento,

Di solito sei impegnata su vari progetti anche come produttrice.

 Si, nel 2014 ho in cantiere un documentario Let’s go su Luca Musella, fotografo e scrittore napoletano, un esodato, e sulla sua condizione economica e sentimentale, la sua crisi, lo sto girando tra Milano e Napoli con la collaborazione di Giovanni Piperno. E poi c’è Morta di soap dal libro di Adele Pandolfi un vecchio progetto che finalmente sta per vedere la luce. Ci sono ancora ostacoli, ma non mi arrendo, sento sempre di più la necessità di raccontare il reality per raccontare la realtà, noi stessi, il rapporto pericoloso con la televisione. Pandolfi parteciperà ma ci sarà un’attrice che interpreta lei protagonista nella vita e nel libro.