«Il momento in cui ho compreso che volevo fare qualcosa di diverso dal cinema verité di Wiseman è stato quando mi sono reso conto che non potevo chiedere alle persone di aprirsi davanti alla macchina da presa, senza restituire nulla di mio in cambio». Ross McElwee, padre del cinema documentario in prima persona, è il protagonista della retrospettiva di Filmmaker Film Festival – fino a a domenica, a Milano, accompagnata dalla monografia News From Home. Il cinema di Ross McElwee, agenzia X edizioni (sabato alle 19 Ross McElwee partecipa a un brunch con Gianfranco Rosi)

«Avendo tentato di diventare inutilmente uno scrittore, quando ho iniziato a riflettere su che tipo di cinema mi sarebbe piaciuto fare, mi sono chiesto anche come inserire elementi della mia soggettività nel contesto di ciò che m’interessava del cinema verité». Discendendo dalla lezione di Richard Leacock e dagli autori raccolti nella Drew Associates, McElwee ha dato vita a un cinema fortemente innovativo che, ancorato al documentarismo autobiografico, ha rivoluzionato, appunto, il fare cinema in prima persona. Oggi i suoi film esprimono un vero e proprio «genere» cinematografico, come si può dire per Warhol, Kenneth Anger e Wiseman.

Trascendendo il dato familiare e individuale che sta alla base dei suoi lavori, McElwee è diventato anche un modello, un prototipo addirittura, di una certa idea di cinema americano. Se da un lato le storie dei suoi film potrebbero tranquillamente discendere dalla tradizione della narrativa statunitense maggiore, quella che lega Mark Twain a John Steinbeck, aprendosi alla problematica modernista di un William Faulkner o di un William Carlos Williams, dall’altro l’essere sempre in un luogo ben identificato, dialogare incessantemente con esso, provoca una frattura fortissima. Che è regionale, locale, e di fatto si oppone alla vocazione globale del cinema Usa, che di quella stessa tradizione narrativa potrebbe essere considerata la versione di «massa». Ed è questo scarto, questo passare di scala, a fare la novità modernista del cinema di McElwee. Come dire che Ross McElwee è la versione low-fi del cinema americano classico. Come un country-blues appalachiano a 78 giri opposto a un 45 giri della Motown.

«Non posso fare a meno di portare ovunque io vada la mia educazione sudista con me. Sono nato e cresciuto a Charlotte, nel Nord Carolina, e il ritmo e il modo di vivere di quei posti mi ha segnato profondamente. Penso, per esempio, alle inquadrature dei miei film che a volte durano più del normale, alla pazienza con la quale affronto i miei lavori, a un certo modo di approcciare la vita. In Italia la mia educazione la si potrebbe paragonare con quella di una persona cresciuta in Sicilia o in Sardegna».

L’atto del filmare secondo McElwee produce così una serie di conseguenze drammatiche e potenti. Il dispositivo che è segno diventa racconto. La realtà, rivista, diventa il segno del dispositivo. Chi filma, stando alla tradizione classica hollywoodiana, è sempre «invisibile». Nel racconto industriale questa è la condizione prima che rende accettabili e credibili le storie. Siamo sempre noi che vediamo. Nessuno ci vede guardare.

Non è un caso che l’esordio Sherman’s March si ponga sin da subito a cavallo fra due dimensioni antitetiche: la storia e l’intimità, dando l’abbrivo a tutto il resto della sua opera.

McElwee, così come il suo approccio filmico si è andato delineando da Sherman’s March al più recente Photographic Memory, mette in campo un procedimento di cinema diretto e osservazionale che non può non tenere conto della soggettività di chi guarda. Il regista osserva da fuori, ma è il suo sguardo a permettergli di integrarsi nella comunità, ossia essere visto e di conseguenza accettato.

«Ciò che m’interessa è giustapporre l’elemento oggettivo delle mie riprese con la soggettività delle mie riflessioni e pensieri. Portare il processo di lavorazione del film nel film stesso e non nasconderlo. Creare una specie di opposizione».

Il nucleo familiare, dunque, su scala ridotta, rilancia la collettività. La danza delle distanze è la misurazione fisica di un pensiero che tenta di comprendere la propria posizione rispetto all’immagine che si filma. Se in un film come Sherman’s March il regista si sovrappone letteralmente alla traccia del passaggio del generale nordista per trovare una sua collocazione nel flusso delle storie e della Storia, in Time Indefinite evidenzia che il tempo è il discorso del corpo che si trasforma: la rivelazione che il cinema non può che essere, inevitabilmente, morte al lavoro, epifania negativa del cinema.

«Il cinema americano oggi soffre di un’orrenda malattia che io chiamo ’sequellite’ (da sequel… ndr) e che potrebbe rivelarsi, temo, la sua malattia terminale. A Hollywood ormai non si fa altro che pensare un film a partire dal successo ottenuto dal precedente. Le difficoltà per montare un progetto che non sia un sequel sono insormontabili. Lo so perché amici miei che si ostinano a volere fare film devono lottare contro innumerevoli ostacoli. D’altronde, forse, anche io sono colpevole in qualche modo: tutti i miei film sono i seguiti del film precedente».

Ammettendo di non andare più al cinema con la frequenza di una volta, racconta che «L’ultimo film che ho visto è Gravity in 3D. Devo ammettere, però, che tutto l’apparato documentario del film, così preciso nel mostrare la tecnologia necessaria per lavorare nello spazio mi ha impedito di abbandonarmi al racconto fantastico che era la storia di Sandra Bullock che tenta in tutti i modi di tornare sulla terra. Era tutto troppo preciso per essere coinvolgente sino in fondo. Almeno per me».

Fra i colleghi documentaristi, McElwee riconosce l’importanza e il valore del lavoro dell’amico Errol Morris che lo accusa di avere dato vita alla cosiddetta «reality tv». «Dal canto mio – aggiunge sorridendo – lo rimprovero di avere dato vita a un genere altrettanto detestabile: il docudrama». Per quanto riguarda Werner Herzog, confessa: «Ammiro l’audacia intellettuale dalla quale si lascia condurre nei luoghi più impensati. Ritengo Grizzly Man uno dei documentari più importanti dell’ultimo decennio».

A ben vedere, tutto il lavoro di McElwee è la reiterazione di un’unica domanda che reinventa, costantemente, una prassi: come si filma? Perché si filma? Addirittura: si può ancora filmare? Ossia: si può ancora raccontare?

E infine è Ross McElwee a porci una domanda: «Ma Nanni Moretti ha fatto altri documentari dopo Caro Diario?».