Ha combattuto a lungo contro un tumore che alla fine non gli ha dato scampo. Lo scrittore Giorgio Todde se n’è andato alle cinque del mattino di mercoledì, a 68 anni. Come narratore esordì con Lo stato delle anime (Il Maestrale) nel 2001, quando aveva 50 anni. Il protagonista di quel libro è un medico, per l’esattezza un anatomo-patologo: Efisio Marini.

CAGLIARITANO come Giorgio Todde, Marini è un personaggio realmente esistito (1835-1900). È passato alla storia della medicina come «Il Pietrificatore» perché aveva inventato un modo di imbalsamare i cadaveri molto efficace: diventavano solidi quasi come statue di pietra. Ma Marini andava anche oltre. Era capace di «sciogliere» nuovamente le sue mummie per poi, ancora, ripietrificarle. Insomma, giocava con la morte: questo Giorgio credeva che facesse ogni scrittore vero; in ogni caso, questo era ciò che a lui interessava fare quando usava la scrittura per narrare.

Ne ha scritti undici di libri nell’arco della sua attività. Con Lo stato delle anime, sono altri quattro quelli in cui Marini è il protagonista: Paura e carne, L’occhiata letale, E quale amor non cambia, L’estremo delle cose.
Giocare con la morte, quindi, come faceva Marini. Giorgio Todde era un medico. Tanti anni nelle corsie di un ospedale insegnano. È un luogo in cui la vita si affida alla cura, a volte per sfuggire alla morte. Todde aveva ben presente quanto l’istinto primario alla sopravvivenza fosse potente, vedeva tutti i giorni quanto la forza primaria che ci spinge a restare in vita fosse grande.

MA ANCHE VEDEVA come questa forza si intrecciasse a un fattore di uguale importanza negli equilibri psichici di ogni individuo: la pulsione di morte. Questo doppio passo muove non soltanto la serie noir su Marini – dove «Il Pietrificatore» si trasforma in un investigatore che risolve casi di morti oscure – ma anche tutti i suoi libri (tra gli altri già citati, vanno ricordati almeno La matta bestialità, Il mantello del fuggitivo).
Libri che sono macchine narrative mirabili, in cui la vita scorre sontuosa nella sua bellezza – nell’abbraccio caldo e pieno del desiderio – e insieme accoglie in sé il senso di un limite, di una mancanza, di un vuoto irreparabile. Vita e morte si intrecciano come in una struggente milonga.
Di Giorgio Todde però non si sarebbe detto tutto se non si aggiungesse che è stato un militante ambientalista. Si commuoveva di fronte alla bellezza di un paesaggio. Piangeva di felicità. Era la bellezza che gli interessava difendere. E lo faceva con i suoi modi gentili. Intransigente, ma senza mai alzare la voce, fermo nella denuncia delle responsabilità dei devastatori dell’ambiente e del paesaggio, ma sempre saldamente ancorato, nella polemica, ad argomentazioni razionali. Voleva convincere più che vincere. Voleva che si capisse quanto distruggere la bellezza sia insensato, non soltanto perché ci rende tutti più poveri in termini di esperienza e di conoscenza, ma anche perché ci impedisce di vedere che non è con il turismo di rapina, con il consumo dissennato di suolo, con la speculazione immobiliare che si può costruire il futuro, in Sardegna e fuori della Sardegna.

PROVAVA A DIRE che su un pianeta che rischia il collasso ambientale, difendere la bellezza era una questione di sopravvivenza e che senza una svolta nel modo di intendere, innanzitutto sul piano della produzione e dei rapporti sociali, il legame tra uomo e natura, il rischio è che prevalga una tragica pulsione di morte.