La più grande rapina si è consumata tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. A essere stato rubato non è un patrimonio quantificabile precisamente, bensì la capacità umana di immaginare e di dare forma a un futuro che non sia la riproposizione di un presente sempre uguale a se stesso.

È QUESTO IL PUNTO di avvio di due testi che inaugurano una nuova casa editrice, la Nero editions (www.neroeditions.com). Il primo è di Mark Fisher, l’altro, complementare, che riprende il discorso là dove si interrompe il primo, è a firma di Nick Srnicek e Alex Williams. Sono testi di una nuova sinistra inglese che ha preso definitivamente congedo dal marxismo anglosassone e ha rivolto le sue attenzioni a quanto di nuovo e inedito è stato prodotto dal capitalismo contemporaneo.

ENTRAMBI I VOLUMI muovono dalla convinzione che la sinistra politica sia stata espropriata dalla capacità di immaginare il futuro da parte del neoliberismo. Sono stati i neoliberisti ad essere utopici, mentre la sinistra socialdemocratica e laburista ha spesso svolto il ruolo di cane da guardia del passato.

Senza approfondire la genealogia di questa tesi, compiutamente sviluppata da Nick Srnicek e Alex Williams, va comunque segnalato che il neoliberismo ha proposto una vera e propria vision della realtà dove l’enfasi sulle libertà personali si è unita a un conservatorismo di fondo.

Il neoliberismo ha cioè lavorato a un ritorno al passato nei rapporti sociali, facendo leva sulla terra promessa di un futuro grondante di benessere generalizzato.

Mark Fisher, morto suicida lo scorso anno, è stato una figura importante nella network culture. Ha saputo, nella sua breve vita, unire una scanzonata e acuta analisi critica della cultura popolare, partendo dalla capacità di vivisezionare i manufatti culturali messi sul mercato, sia che fossero film, brani musicali, libri. Usando con disincanto le tesi di autori (Slavoj Zizek, Alain Badiou, Frederic Jameson e successivamente Franco Berardi Bifo) tra loro differenti e a tratti dissonanti, ha messo a fuoco questo saggio, finalmente tradotto: il Realismo capitalista (pp. 152, euro 13).

Per Mark Fisher, siamo nel 2009, «il realismo capitalista» fa il verso a quel realismo socialista che nella parte centrale del Novecento ha tenuto banco nel pensiero politico della sinistra inglese, con poche differenze tra la componente, maggioritaria, laburista e quella comunista.

Fisher tuttavia aveva fatto tesoro dell’eredità del Sessantotto: considerava il realismo socialista e il socialismo reale residui passivi da relegare alla «critica dissacrante dei topi». La sua attenzione è qui concentrata sullo svelamento del carattere totalitario del realismo capitalista, che muove da un assunto propagandato da Margaret Thatcher: non è possibile nessuna alternativa all’economia di mercato.

Con acido sarcasmo, l’autore parla, inoltre, dei think thank neoliberisti che hanno sempre propagandato il capitalismo come migliore dei mondi possibili, come cenacoli di «comunisti liberali», intendendo con questa espressione la tendenza ortodossa, autoritaria del neoliberismo.

IL ROMANZO di formazione politica di Fisher non si è però nutrito di nostalgia. È stato protagonista, assieme ad altri, della breve, ma intensa e fertile stagione di un gruppo di ricerca (il Cybernetic Culture Research Unit dell’Università di Warwick) che si proponeva di studiare quel fenomeno riassunto dall’espressione «rivoluzione del silicio», ossia la diffusione di massa dei personal computer e la formazione di una rete globale telematica (l’attuale Internet). I riferimenti teorici sono qui lo statunitense Jameson, ma anche teoriche femministe come Sadie Plant e, meno citata, Donna Haraway. Ma un ruolo di tutto rispetto era conferito alla traduzione di alcuni quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, utili per cartografare il farsi egemonia del realismo capitalista, nonché scrittori cyberpunk come William Gibson e Bruce Sterling, e anche i loro fratelli e sorelle maggiori, quali Philip K. Dick e Ursula Le Guin.

Fisher ha avuto la capacità di miscelare il tutto con una passione che dovrebbe essere ripresa ancora oggi, quando la possibilità di un futuro diverso sembra cancellata del tutto. Prendere i manufatti culturali, destrutturarli, facendo emergere sia il loro ruolo nella costruzione del consenso al regime capitalista ma anche gli elementi di critica corrosiva che celano tra le pieghe di un fotogramma o di un brano musicale. E se quando viene dato alle stampe Realismo capitalista la traiettoria cyberpunk ha esaurito la sua spinta propulsiva, il consumo culturale vede il successo della seconda serie di Guerre Stellari, dei vari vampiri e ammazzavampiri, nonché della saga degli Hunger Games: tutti esempi della centralità della figura del ribelle nell’immaginario collettivo, divenuta, ironia della sorte, parte integrante proprio del realismo capitalista.

Fisher ne è stato consapevole, ma l’invito a riprendersi il futuro, e dunque il presente, lo ha portato a misurarsi con la produzione seriale di scarti umani tipica del regime di accumulazione dominante. E come talvolta accade, è rimasto lui stesso stritolato da quella depressione, disagio psichico di un mondo che nega qualsiasi futuro che non sia la riproduzione di un arido presente sempre uguale a se stesso.

CHI PRENDE L’EREDITÀ di Fisher sono sicuramente Nick Srnicek e Alex Williams. Con questo Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro (pp. 359, euro 20) continuano il discorso proprio dove finisce l’altro saggio. Lo stile non è quello cut&paste, frammentario, spesso usato da Fisher. È misurato, quasi didascalico, ma comunque netto nel chiedere una cesura netta, meglio una discontinuità radicale con le culture politiche del movimento operaio e dei movimenti sociali. I due autori sostengono che occorre disfarsi della convinzione che sia il lavoro la fonte dell’identità sociale. Inoltre, il lavoro diventerà sempre più una risorsa scarsa a causa dei processi di automazione che, dopo quello manuale sta riguardando anche il lavoro intellettuale, cognitivo.

La realtà attuale è già una frenetica sliding door tra lavoro e disoccupazione, tenuto conto che il lavoro è precario, intermittente e pagato poco. Il paradosso è che viene chiesto di lavorare gratuitamente con la promessa di una regolarizzazione futura. I due autori non hanno dubbi: l’automazione non si può fermare; la sinistra non può dunque che accelerare la sostituzione degli umani con robot e computer. Agli uomini e alle donne va garantito un reddito di cittadinanza. E se questo serve per evidenziare la critica al «lavorismo» della sinistra, non meno caustica e tagliente è la critica alla folks politics dei movimenti sociali.

Il loro localismo, l’enfasi sul piccolo è bello, la rinuncia a pensare in grande una trasformazione radicale dei rapporti sociali sia a livello locale che nazionale e globale alimentano, secondo Srnicek e Williams, la subalternità e irrilevanza politica dei movimenti sociali.

ANALISI IMPIETOSA, la loro e condivisibile solo quando i due autori fanno riferimento alla rinuncia di molti movimenti sociali a fare i conti con il Politico, motivata dalla convinzione che il mondo si possa cambiare senza prendere il potere. E importante è il diktat politico che occorre riprendersi il futuro dopo lo scippo compiuto dal neoliberismo. E se le loro «riforme senza riformismo» sono funzionali ad attraversare l’interregno nel quale viviamo, ossia in un mondo dove il passato non è del tutto passato e il nuovo fa fatica ad affermarsi, discutibile è il riferimento a fare leva sul cambiamento del senso comune come elemento propedeutico riguardo l’affermazione di una egemonia della sinistra radicale postlavorista.

È innegabile il riferimento alla ricezione di Antonio Gramsci veicolata dal filosofo Ernesto Laclau nel suo Critica della ragion populista. La concezione dell’universale come sussunzione e superamento dei particolari nonché come traduzione delle differenze a una lingua comprensibile a tutti apre le porte a una volontà generale che si vorrebbe relegare a ideologia della borghesia. Inoltre, questo Inventare il futuro assegna al Politico una autonomia dai rapporti sociali e dalla stessa composizione sociale del lavoro vivo che ricorda l’autonomia del politico di un declinante movimento operaio. È prigioniero dell’apocalisse culturale da cui occorre prendere le distanze. Più che discontinuità, il saggio di Srnicek e Williams cede dunque il passo a una circolarità della prassi teorica che rischia nuovamente la paralisi politica.

C’è però da dire che la riconquista del futuro è un obiettivo politico prioritario, proprio ora che la crisi del 2008 ha mostrato che il futuro vagheggiato dal realismo capitalista è un vero e proprio inferno invece che un’utopia pratica che orienta l’azione nel presente. Per questo va compiuto quel passaggio che punti ad espropriare i contemporanei espropriatori del futuro.