Quattro vignette riempiono l’intera pagina. Il titolo è un secco e perentorio stampatello maiuscolo: WHY THE RECORD BAN? (Perché il blocco delle registrazioni?)
Sotto ci sono due microstorie. Nella prima vignetta si vedono i gestori di un locale trasportare un juke-box e intimare ai musicisti di andarsene perché sono stati sostituiti dalla nuova macchina sonora. Nella vignetta successiva i musicisti raccontano a dei colleghi increduli quello che è avvenuto.
Nella seconda storia il boss di uno studio radiofonico comunica ai musicisti che quello che hanno appena tenuto è il loro ultimo spettacolo, ma che possono sempre registrare i dischi. Nella vignetta successiva, accanto alla moglie affranta uno di loro racconta alla figlia incredula che non suonerà più alla radio perché i dj sono molto più economici della musica dal vivo.
Il fumetto è di ottima fattura ed è firmato da Lee Teaford, uno degli autori degli albi Crime Does not Pay, fumetti che sono arrivati a vendere un milione di copie (e dunque cinque milioni di lettori potenziali secondo le stime del tempo) nel 1948. È dello stesso anno il numero della rivista su cui è pubblicato Why the Record Ban?. La pubblicazione si chiama International Musician ed è l’organo dell’American Federation of Musician, il sindacato dei musicisti di Stati Uniti e Canada. La pagina è stata prodotta dalla Local 47, la sezione sindacale di Hollywood. La Afm è nota a tutti gli appassionati di jazz per aver indetto il più lungo sciopero della storia dell’industria musicale: il celebre Record Ban cominciato il primo agosto 1942 e terminato l’11 novembre ’44. Un secondo sciopero fu indetto dal sindacato dal primo gennaio 1948 al 14 Dicembre dello stesso anno, ed è quello a cui si riferisce il fumetto citato.
FONDO PER DISOCCUPATI
Ma torniamo al primo sciopero. Agli inizi degli anni Quaranta il mondo dell’industria musicale è nel pieno di una rivoluzione tecnologica che sarà destinata a modificarla radicalmente. Non sono stati ancora assorbiti del tutto gli effetti dell’introduzione del sonoro nel cinema (1926) che ha eliminato dal mercato del lavoro migliaia di musicisti impiegati a sonorizzare le pellicole dei teatri e nelle sale di proiezione. Le maggiori compagnie di produzione discografica attraverso una solida rete di accordi commerciali e partecipazioni azionarie con le compagnie radiofoniche stanno puntando a sostituire la musica dal vivo con i più economici dischi trasmessi via etere o dai nuovi riproduttori multipli chiamati juke-box. Le occasioni di lavoro per i musicisti calano drasticamente. Di questa cosa si accorge subito il nuovo presidente dell’Afm, un trombettista di Chicago dalle origini italiane: James Caesar Petrillo. Il leader sindacale ha ben chiara una cosa: le nuove tecnologie porteranno maggiori guadagni alle case discografiche e minore lavoro per i musicisti. Bisogna perciò che una parte dei guadagni ottenuti dai dischi siano dirottati verso un fondo a favore dei musicisti disoccupati. Lo sciopero ha come richiesta questo semplice ma chiaro obiettivo. Sono esclusi dal divieto di registrare solo i V-Disc, i dischi destinati alle truppe impegnate nella Seconda Guerra Mondiale. Possono registrare anche i cantanti, che non fanno parte dell’Afm, e gli armonicisti ( per uno strano pregiudizio nel confronto di uno strumento non considerato tale). Questa improvvisa e inaspettata libertà d’azione produrrà un discreto sviluppo degli ensemble vocali e di armonicisti come i celebri Harmonicats. Per il resto l’adesione è totale. Alla fine il sindacato vince.
Nel 1947 il Congresso a maggioranza repubblicana si vendica promulgando una legge talmente antisindacale che lo stesso presidente Truman cerca di fermare per la sua palese antidemocraticità. L’obiettivo principale è rendere illegale il fondo, che è gestito direttamente dalla Afm. Dopo il secondo sciopero il fondo è salvo anche se affidato a una gestione terza.
A Petrillo i jazz fan non perdoneranno mai quella che considerano una colpa intollerabile: l’aver impedito di documentare discograficamente la nascente rivoluzione bebop; incoraggiati nel loro inconsolabile livore dai critici e dagli storici del jazz i quali hanno per anni reiterato una serie di tesi del tutto indimostrabili a partire proprio dal presunto scippo delle registrazioni dei giovani Charlie Parker e Dizzy Gillespie anche se niente ci può assicurare che le major, contro le quali ricordiamo era rivolta la lotta sindacale, avrebbero deciso di puntare sugli innovatori. Altra tesi è quella secondo la quale lo sciopero avrebbe portato al declino dell’era gloriosa delle Big Band favorendo i cantanti i quali si sarebbero imposti grazie alle incisioni con gli ensemble vocali. Lo sciopero riguardava solo le incisioni discografiche ma non vietava affatto le esibizioni dal vivo nei teatri, locali e alla radio, anzi era stato dichiarato proprio per sostenerle. Se escludiamo le poche e non memorabili registrazioni di gruppi vocali, i cantanti continuavano a esibirsi con le orchestre. Che la popolarità dei cantanti, e la loro rilevanza nel jazz non abbia certo avuto bisogno di sfruttare il vuoto creato dal record ban lo dimostra ad esempio il fatto che Benny Goodman abbia inciso tra il 1941 e il 1942 ben trentadue brani con cantanti e solo dodici strumentali. Ma la diffidenza degli appassionati nei confronti della canzone e la tendenza a raccontare il jazz come un fenomeno separato dagli sviluppi della musica popolare hanno imposto una visione distorta dei fatti. Il rammarico per la perdita di centralità a scapito di nuove musiche ha fatto il resto.
IL COLPEVOLE
Andava individuato un colpevole; Petrillo, italoamericano e sospettato di antipatriottismo per aver scatenato uno sciopero nel mezzo di una guerra mondiale, era il candidato ideale. Secondo lo scrittore Arrigo Arrigoni, Petrillo sarebbe stato «un piccolo Cesare dal fisico diminutivo (…) Cresciuto in strada, non aveva completato la scuola primaria, ma gli veniva riconosciuto coraggio, sangue freddo, autorevolezza e una grande determinazione (…) Musicista mediocre (…) Non senza frequentazioni sospette» . Difficile trovare in un libro sul jazz un ritratto tanto sprezzante e denigratorio. Forse queste parole acuminate andrebbero riservate a ben altre figure che al mondo del jazz, e ai suoi uomini e alle sue donne hanno fatto davvero più male. Nemmeno lo storico marxista Eric Hobsbawn, da cui ci si sarebbe aspettato un diverso approccio, simpatizza per la lotta dei lavoratori americani della musica accostandola impropriamente alle politiche protezionistiche del sindacato inglese.
Questi giudizi sul record ban sono stati ripresi senza verificarne la fondatezza da una legione di critici e scrittori diventando nel tempo una verità incontestabile. La versione che passa alla storia è che «l’era dello swing finì così, nel silenzio degli studi di incisione».
Più realisticamente le ragioni di un tale cambiamento andrebbero cercate nell’intreccio tra l’emergere di una nuova generazione di giovani con altre esigenze, aspettative e stili di vita non più identificabili nella «narrazione collettiva» dello swing ma alla ricerca di quella diversificazione stilistica e flessibilità che meglio è garantita dai piccoli gruppi, il nuovo scenario economico e politico post-bellico, la diffusione di nuove tecnologie per la riproduzione sonora e la loro accessibilità.
Agli storici del movimento sindacale spetta il compito di valutare la bontà o meno delle scelte della dirigenza di Petrillo. Per chi scrive di jazz è però venuto il momento di rimuovere dalla sua figura lo stigma di avere «ucciso lo swing».