La «trasformazione del sistema agroalimentare mondiale» e lo «sciopero del debito estero da parte del Sud globale» sono azioni urgenti e necessarie, tanto più di fronte alle mezze misure uscite dalla Cop26 di Glasgow: lo afferma Raj Patel, economista, autore, esperto di sistemi alimentari globali che, insieme a Zak Piper, firma il documentario The Ants and the Grasshopper. E’ la storia, lungamente meditata, dell’inconsueto viaggio compiuto da Anita Chitaya. Contadina e attivista del villaggio Bwabwa in Malawi, vive nella morsa arida di una crisi climatica che la sua organizzazione Soils, Food and Healthy Communities (Sfhc) cerca di affrontare concretamente, con soluzioni pratiche sia nella produzione di alimenti che nella vita quotidiana e nelle relazioni. Ma non basta: Anita fa risalire alle emissioni di paesi come gli Stati Uniti le piogge mancanti in Malawi, e vuole sapere perché là a Nord non si stia facendo di più per arginare la catastrofe climatica. Così, parte per gli Stati uniti, dove incontra scettici sul clima, politici, agricoltori disperati. E nell’operato di frontiera delle comunità afro-discendenti scopre soluzioni, concrete e ideali al tempo stesso.

Le formiche e la cavalletta: perché il documentario ha questo titolo?

E’ il pensiero di Anita Chitaya. Una singola formica non può sollevare una cavalletta morta, non può fare cose grandi, ma quando le formiche si mettono al lavoro insieme, sono capaci di sollevare qualcosa di molto più grande di loro. E trova che negli Stati molte formiche potrebbero farlo, ma solo alcune sono davvero al lavoro. Eppure anche nel Nord globale l’azione è del tutto possibile.
Il documentario sostiene la necessità di decolonizzare il mondo affidandosi a un altro approccio, a soluzioni sagge, di fronte alle diverse crisi.

L’impressione è che il Nord stia affrontando la crisi climatica, così come la crisi sanitaria e le sue origini, con mezzi solo tecnocratici e soluzioni a valle, invece che con una cura profonda. Invece, le comunità che sono in prima linea, essendo abituate ad affrontare molteplici crisi – povertà, colonialismo, patriarcato, razzismo strutturale e ambientale – sviluppano strategie che abbiamo voluto presentare nel documentario: soluzioni e saggezze «di frontiera» negli Usa come nel Sud del mondo.La Cop26 di Glasgow è andata in un’altra direzione, attribuendo un ruolo guida alla tecnologia e alla finanza.

Nel nostro film, qualcuno dice: «Un cambiamento inizia con la negazione». Ma a Glasgow non c’è stata negazione. Le potenze hanno ammesso la necessità e poi hanno concluso un inconcludente accordo. Del resto, il settore dei combustibili fossili sembra aver espresso alla Cop26 un numero di delegati – inseriti nelle rappresentanze nazionali – superiore a quello delle nazioni più colpite dalla crisi. E chi si è comportato peggio? Certo, è facile incolpare il governo dell’India, uno dei principali produttori di carbone, che ha preso alcuni vaghi impegni su zero emissioni nette entro il 2070 e nel frattempo consegnerà milioni di milioni di suoi cittadini alla morte. Ma occorre anche incolpare il Nord. Il Regno unito secondo recenti calcoli ha estratto decine di trilioni di dollari di valore alla sua colonia indiana. Deve restituire, e non ha nessuna intenzione di farlo.

Appunto: lei ha sottolineato la necessità di una remissione del debito del Sud globale, anche perché molti paesi dovranno contrarre altri prestiti per riparare i danni del caos climatico che non hanno determinato. Eppure le responsabilità storiche e il debito ecologico non sono stati riconosciuti, e non è stato costituito l’organismo richiesto da cento paesi per garantire un congruo sostegno finanziario per l’adattamento e la mitigazione.

Agire sul debito è enormemente importante. Del resto non ha senso parlare di riduzione delle emissioni se i paesi del Sud globale per pagare il debito che è illegittimo da generazioni devono continuare ad abbattere foreste ed estrarre petrolio o bruciare carbone. Le promesse in materia sono inadeguate; e in ogni caso non vengono mai mantenute. I paesi del Sud globale, anziché pagare, devono pensare molto più seriamente a uno sciopero concertato del debito, perché il Nord deve avviare un percorso di vero risarcimento.

Sul lato dell’agribusiness, quanto conta l’offensiva della «Coalizione per la crescita della produttività», promossa dall’attuale segretario Usa all’agricoltura Tom Vilsack, con il coinvolgimento di nove paesi fra i quali Brasile e Australia – non proprio paladini del clima – e sostenuta da colossi privati dei pesticidi, dall’industria sementiera, dai comparti statunitensi della lavorazione della carne e dell’esportazione del latte?

Al vertice Onu sui sistemi alimentari, in settembre, questi attori hanno agito per spingere verso soluzioni del tutto tecnocratiche al problema della malnutrizione globale. E poi, in vista della Cop26, Vilsack ha varato la Innovazione e modernizzazione agricola per il clima (Aimxc) insieme, fra gli altri, agli Emirati arabi uniti – davvero una realtà agricola! Il loro approccio si può riassumere così: Non occorre parlare di consumi, di carne, di mangimi concentrati, non abbiamo bisogno di regolamentazione. Usiamo i meccanismi di mercato. Vaghi, questi ultimi; si sa solo che molto denaro andrà a istituzioni del Nord per aumentare produttività anche nel Sud globale. Questo significa ripetere gli errori che ci hanno portati qui. Quindi cambiano le coalizioni promosse da Vilsack ma rimane identico l’approccio.

Qual è invece lo scopo della «Dichiarazione di Glasgow su cibo e clima»?

La Dichiarazione è stata promossa dal segretariato del Gruppo internazionale di esperti sui sistemi alimentari sostenibili, di cui faccio parte, e da un gruppo chiamato Nourish Scotland. Va detto che spesso a livello di municipalità e regioni si trovano atteggiamenti più responsabili di quelli dei governi. Le politiche migliori nel campo dei sistemi alimentari vanno collegate con quelle sul fronte climatico: programmi che sequestrano il carbonio, proteggono la biodiversità e sostengono i lavoratori. L’idea della Dichiarazione sul cibo e sul clima è condividere le migliori pratiche tra diverse città e regioni in modo che anche chi ha governi nazionali inadempienti possa agire al meglio.

«Il capitalismo agricolo è a un bivio: se continuiamo così avremo meno specie nel mondo e una profonda perdita di produttività agricola»: così spiegava nel corso della nostra intervista del 2019. Ma come fare, come uscire dal circolo vizioso tra crisi climatica e sistemi alimentari, entrambi colpevoli e vittime?

I sistemi agroalimentari industriali sono alla radice di un crescente numero di malattie di origine zoonotica e generano una quota sproporzionata di emissioni globali di gas serra. La produzione di alimenti è vittima e carnefice della crisi climatica globale. Va trasformata ricorrendo a soluzioni ben collaudate e ben studiate, intorno all’agroecologia, ma anche pensando a superare le disuguaglianze, così da garantire che tutti mangino: che importa la produttività agricola se i più poveri non possono ancora permettersene i frutti? Sono 2,3 miliardi le persone in stato di insicurezza alimentare nel mondo, a causa della crisi climatica, dei conflitti e del capitalismo. Le nostre economie potrebbero essere diverse e così il nostro modo di alimentarci e di connetterci gli uni con gli altri, ma i governi nazionali non hanno seguito questa via alla Cop26. E, a meno di un deciso mutamento di rotta, non la seguiranno nemmeno alla Cop27. Quindi sta a noi lottare per il futuro: la nostra dignità richiede che ci trattiamo gli uni gli altri con cura e facciamo lo stesso con il pianeta. E forse diventerà necessario «violare la legge», così da ricordare ai nostri governi che devono lavorare per le persone e per l’ambiente. Nei prossimi decenni occorrerà una marea di azioni dirette, compiute in modo responsabile, contro l’industria dei combustibili fossili così come contro l’agribusiness, al fine di salvare il pianeta. Sosterrò questo lavoro con tutto il cuore.