Spaventi, sussulti e epifanie giocose. La pratica artistica di Marcello Maloberti, fin dai primi anni ’90, indaga la dimensione performativa e installativa con opere in cui l’osservazione e la trasformazione della quotidianità è contaminata da inserti onirici e dissacranti, facendo proprie le analisi sull’«informe», teorizzate da Rosalind Krauss e Yve-Alain Bios.
Nato a Codogno nel 1966 e cresciuto a Casalpusterlengo, Maloberti pur vivendo a Milano ha sempre mantenuto legami con quei luoghi. Le sue opere sono state esposte alla Quadriennale di Roma, al Museo Pecci di Prato, alla Generali Foundation di Vienna, al Maxxi di Roma, e alla Triennale di Milano. Proprio qui è stato invitato a partecipare al progetto Triennale Decameron: storie in streaming nell’era della nuova peste nera, che prende spunto dal Decameron di Giovanni Boccaccio e da quel gruppo di giovani che nel 1348, per dieci giorni, si riunirono lontano da Firenze per sfuggire alla peste nera, narrando a turno novelle.

Si può iniziare questa conversazione con l’opera «Kasalpusterlengo», presentata alla Triennale di Milano nel 2006. Come è nato quel lavoro?
È una foto performativa e un’installazione, nata dal mio desiderio di appendermi al cartello stradale del paese, per far sentire il mio legame con quel luogo. Per aiutare la comunità casalese ho recentemente disegnato su una t-shirt un grande cuore, il nome del comune e la scritta «andrà tutto bene». I proventi della vendita della t-shirt sono serviti ad acquistare il materiale di protezione sanitario, che scarseggiava. Nel titolo dell’opera ho sostituito la «C» con la «K» per renderlo più esotico, come faceva Pier Vittorio Tondelli con Carpi che scriveva con la «K». Credo sia importante rimanere sempre stranieri, anche nei luoghi natii.

Nel libro «Martellate (scritti fighi 1990-2019)» c’è una pagina in cui appare questa scritta: «Sciamano di Casalpusterlengo». Chi sarebbe, dunque, quello sciamano?
Era riferita a me stesso. Casalpusterlengo è un paese dove pochi sono stati davvero, lo si conosce per il suo nome, che si legge in autostrada sulla Milano – Bologna, e ora, purtroppo, per il Covid-19. È il luogo che ha formato il mio immaginario e che a volte riemerge nel mio lavoro. È dove ho fatto i miei primi lavori negli anni ’90, quelli con mia madre e mia nonna, osservando ciò che avevo vicino. Sono opere nati dalla spensieratezza e dall’ingenuità. Quello stato d’animo è per me prezioso e cerco di mantenerlo in tutto quello che faccio. L’arte è un gioco, ma è un gioco serio, penso che ci debba sempre essere una componente di spensieratezza, di imprevisto, dal momento che ogni mio lavoro nasce da uno spavento. Ho scritto «Sciamano di Casalpusterlengo» perché penso che oggi vi sia bisogno di un’arte che permetta di avvicinarsi a una dimensione di estasi, di spiritualità.

[object Object]

Lo scorso anno, in occasione del centenario della nascita di Maria Lai, lei è stato invitato a Ulassai. Può parlarci del progetto «Cuore mio»?
Per la prima tappa di Cuore mio ho fatto prelevare il cartello stradale di Ulassai, paese d’origine di Maria Lai, per installarlo al Maxxi a Roma, sua città adottiva, dove era in corso una personale dedicata all’artista. Il proposito era quello di legare due luoghi chiave della sua vita. Al Maxxi il cartello era sorretto da due guardie nell’atrio, come se fosse una nuova porta d’ingresso alla mostra.
La seconda tappa del progetto, curato da Davide Mariani, si è svolta ad Ulassai. Su una grande roccia ho posizionato un secondo cartello stradale con la scritta rivolta verso il cielo. Una lunghissima bandiera a quadretti bianchi e rossi, portata dalle persone dalla piazza principale fino ai piedi del cartello, voleva sottolineare la relazione tra città e montagna, che Maria Lai aveva fatto già con l’opera Legarsi alla montagna.
Il percorso terminava in piazza dove era installato Circus Barigau, una grande tenda da mercato su cui erano appesi 250 specchi. Ai quattro angoli della tenda vi erano quattro macchine con i fari accesi, le cui luci erano riflesse negli specchi, creando una sorta di grande sala da ballo. Si era creata un’atmosfera sognante, e sembrava di essere in un film di Fellini.

Far riemergere aspetti della storia passata è una delle costanti nella sua produzione artistica. In «Bacia Mano», dove un elegantissimo Ninetto Davoli, l’attore simbolo di Pier Paolo Pasolini, sale su un palco per fare il baciamano, e alla performance «Cicerone». Cosa significano questi interventi?
Posso sintetizzare con la risposta che ho dato per il progetto di Artissima su Instagram: ho tra le mani una moneta antica greca, da un lato c’è Pasolini, dall’altro Carmelo Bene e sul profilo c’è Kafka. Pasolini rappresenta il mio sporcarmi con la realtà, Carmelo Bene il mio sporcarmi con il divino e Kafka il mio balbettare con il linguaggio.
Giorgio Agamben dice che l’archeologia è la sola via d’accesso al presente e che del passato bisogna cogliere le possibilità incompiute. In questo momento, riesco poco a essere in sintonia con il mondo esterno, con la globalizzazione, e la storia dell’arte è per me una sorta di isola rifugio. Bacia Mano nasce da una sorta di gioco tra Luciano Fabro e Carla Lonzi dove lui le faceva il baciamano. Per la quadriennale di Roma, città di Pasolini, ho pensato a questa azione perché Ninetto Davoli su quel palco come una divinità, accoglie Roma, ossia i suoi abitanti, con il baciamano. Nella performance Cicerone, presentata alla Galleria Raffaella Cortese, Roberto Carozzi ha raccontato gli affreschi di Lorenzo Lotto dipinti per l’oratorio di Trescore Balneario. È come se attraverso la sua voce Carozzi, che è una guida professionista, rendesse visibile l’affresco e la sua voce diventasse anch’essa pittura. È lui il vero «cicerone» di questo spazio. Mi piace l’aspetto dell’invisibilità, di vuoto: penso a Socle du monde di Piero Manzoni, dove lo spettatore lavora con l’immaginazione per visualizzare la scultura, che è il mondo e che non si può vedere per intero. Ora sto lavorando a un progetto per il Macro di Roma, con l’attrice simbolo di Carmelo Bene, Lydia Mancinelli. Le farò leggere alcune scritte del mio libro, con la sua voce che viene dall’alto: staccata dal corpo, come una macchina attoriale di Carmelo Bene

Come artista, ha partecipato al progetto «Triennale Decameron: storie in streaming nell’era della nuova peste nera». Cosa ha presentato?
Stefano Boeri, architetto molto vicino all’arte contemporanea, con cui c’è molta affinità, mi ha accolto nello streaming facendo una sorta di performance, martellando il mio libro Martellate (scritti fighi 1990-2019). Abbiamo parlato del libro e del progetto Circular, che è stato realizzato insieme allo Stadio di San Siro di Milano, e ci siamo ripromessi di farne altri con lo stesso spirito di avventura.

 

SCHEDA

È il Decameron di Boccaccio ad avere ispirato Triennale Decameron: storie in streaming nell’era della nuova peste nera. Un appuntamento giornaliero in diretta alle 17 sul canale Instagram di Triennale, iniziato il 5 marzo con un palinsesto interdisciplinare, composto da musicisti, architetti, scrittori, registi, giornalisti, ma anche dal fisico nucleare Paolo Branchini, dal direttore del Carcere di San Vittore di Milano Giacinto Siciliano, e dal laboratorio di circo Quattrox4. Sono stati fatti dialoghi a più voci, come quello tra Lorenza Bravetta, Antonio Ottomanelli e Mauro Felicori, intitolato «A distanza di sicurezza: Cultura e Turismo prima e dopo la pandemia». Domani ci sarà l’incontro con l’architetta e designer Patricia Urquiola, il 6 Umberto Angelini e Antonio Latella, l’11 Sabina Guzzanti, e il 16 i designer formafantasma. Gli incontri sono registrati sul canale Instagram di Triennale.