Incontrare la morte, riconoscerla e scendere a patti con lei, è un appuntamento al quale non possiamo mancare. È l’ovvio e imprevedibile fato che in questi mesi ritorna come un pugno nello stomaco, portato fin dentro le nostre case dai media, sia che scenda tonante dal cielo con missili kinzhal, sia che si nasconda in droplet sussurrati silenziosamente. Se la morte non è mai vissuta come evento ordinario, ancor più straordinario e scandaloso è quel morire collettivo visualizzato da immagini di fosse comuni o cortei di camion militari che in strade deserte trasportano i corpi dei contagiati.

Prima che si affermasse l’idea del Purgatorio, verso il XII secolo, gli uomini risolvevano il destino delle anime dei morti in guerra o durante una pestilenza immaginandoli come turbini di vento che soffiavano nell’atmosfera guidati da personaggi come Arlecchino e Diana, la domina notturna del cielo. Altre volte, com’è accaduto a Napoli, questa sorta di dannati rimanevano invischiati nelle reti sotterranee degli ipogei della città, dando vita a un vero e proprio culto che già lo storico Michel Vovelle definiva «di sorprendente stranezza».

LA POSTURA di questo raffinato studio sul culto dei defunti è già nella dedica del volume di Marino Niola Anime. Il purgatorio a Napoli, ripubblicato con una nuova introduzione da Meltemi (pp. 196, euro 18): «alle vittime del Covid / A coloro che se ne sono andati soli e senza conforto…». Quasi una dichiarazione d’intenti che suggerisce che le forme cerimoniali del passato possano ancora indicarci strade di senso per restare saldi di fronte agli eventi calamitosi dell’esistenza.

IL CULTO delle anime pezzentelle – da petere, chiedere, da cui anche pezzente – è una forma di devozione popolare verso i resti mortali che affollano gli ipogei delle chiese napoletane fin dalle pesti del XVII secolo. Il centro rituale studiato dall’antropologo napoletano consiste essenzialmente nell’adozione da parte dei fedeli delle vestigia mortali, i crani, conservati sotto varie chiese napoletane per attivare con loro uno scambio simbolico, facendo di questo anonimo exercitus mortuorum un’armata di spiriti tutelari. Siamo di fronte, scrive Niola, a una «pietas dei vivi che si prende cura delle povere anime, trasforma i mauvais morts in anime benefiche, soccorrevoli, e in grado di intercedere».

VENIAMO COSÌ accompagnati in un viaggio nella religiosità popolare napoletana, nelle poetiche e politiche di coloro che nella loro difficile vita – e spesso più facile morte – dividono con le anime pezzentelle la stessa sorte di marginalità, esclusione e perdita della memoria al mondo.
Vivi e morti, anime e corpi, si scambiano memorie e desideri in una forma di circolarità di maussiana memoria dove ad ogni spirale l’anima si fa più presente, si svela. Da anima sconosciuta, si ripresenta ai vivi attraverso segni e sogni, rivelando la sua precisa collocazione tra le montagne di ossa e teschi, dandosi un ruolo o un nome: il Signore Abbandonato, il Capitano, il Bambino con la testa piccola, Lucia, Francesco. Nessun cristiano d’altronde è nuovo a queste logiche, conoscendo già da secoli l’efficacia simbolica delle reliquie dei corpi santi.

IN QUESTO SCAMBIO simbolico tra vivi e morti, in queste memorie del sottosuolo – in «una sorta di trasduzione reciproca tra codici spaziali e codici temporali», scrive Niola – vediamo che ciò che sta sotto, diviene ciò che viene prima nel tempo. Siamo di fronte a una geografia della memoria che fa degli stessi morti i simboli e i custodi della durata.
Nella seconda parte del volume l’autore riporta una serie di interviste ai fedeli del culto, che attraverso storie, vite e sogni offrono un quadro caravaggesco di una potente fede che ha trovato nella città di Napoli il suo luogo d’elezione, la sua dimora.

QUESTI LUOGHI MISTERIOSI e affascinanti, queste sliding doors dell’aldilà, hanno acceso fantasie e curiosità di artisti e scrittori, alle cui opere è dedicata la terza parte del volume, Scritture: da Mayer a Mastriani, da Cecchi a Rebecca Horn, un’antologia necessaria perché, come scrive la curatrice Elisabetta Moro, «l’interrogazione antropologica di una cultura non può avvenire che prestando orecchio all’armonia complessiva delle voci che l’attraversano».