Oggi anche l’Italia scende in piazza contro il Ttip. Siamo fiduciosi che i media faranno il loro dovere come di consueto e che in tg e talk show sarà l’argomento di punta della settimana successiva dopo aver dato ampio spazio al dibattito critico…

Nonostante una certa renitenza a darne visibilità da parte di giornali e tv, la campagna Stop Ttip è viva e vivace in molti paesi europei, non ultima l’Italia. Questo perchè nonostante la fatica di aggregare, il Trattato transatlantico impatta su tante materie diverse, per cui tutti si sentono un po’ minacciati: dall’agricoltura ai servizi sanitari, dal mondo della formazione a quello industriale.

Forse minor rilievo ha avuto il tema della finanza e del settore bancario. Eppure anche qui ci sono pericoli molto significativi. Com’è noto, il Trattato viene avversato per la concreta prospettiva di regolamentazioni al ribasso (favorendo fra norme Usa e Ue quelle che impattano di meno sul commercio e che quindi tutelano di meno), di privatizzazioni di massa, e di cessioni di sovranità con la possibilità per le aziende più forti di ottenere risarcimenti per la leggi sgradite grazie a tribunali privati sovranazionali. Per quello che riguarda le banche le questioni chiave si collocano nella cosiddetta cooperazione regolatoria, una convergenza che si traduce in un vero e proprio abbassamento degli standard. Ma a favore di chi?

Usa e Ue sono le principali potenze finanziarie del pianeta: da soli comprendono circa la metà delle attività bancarie e oltre il 60% mondiale dei titoli di debito pubblico. Mentre per il mondo dei prodotti finanziari la legislazione europea è considerata più rigida, gli istituti bancari negli Usa hanno meno importanza per il finanziamento alle imprese quindi da parte del governo c’è stata meno renitenza a imbrigliarle. Briglie che le banche europee non prevedono di accettare.
L’inserimento del capitolo sui servizi finanziari e sulla regolamentazione bancario è stato richiesto con energia dalle maggiori associazioni di istituti di credito su entrambe le sponde dell’Atlantico. E le loro richieste non sono state inascoltate.

La situazione di Deutsche Bank è paradigmatica. Senza dubbio una delle banche europee più potenti e dedite alla speculazione, tanto da essere considerata da un rapporto del Senato Usa come la maggior responsabile della crisi globale assieme a Goldman Sachs, ha cercato di sottrarsi alla regolazione imposta dalle autorità statunitensi; attualmente è alla testa della cordata di lobbisti che spingono la Commissione a chiedere al negoziatore Usa una regolazione meno incisiva. In che modo?

Fino a poco fa, i documenti disponibili risalivano all’ottobre 2013 e ai primi del 2014; in essi si ipotizzava la concessione del mutuo riconoscimento delle leggi dell’altra parte con grande forza. Per cui le filiali di Deutsche Bank oltre Atlantico potrebbero seguire gli standard europei e non quelli Usa. I principi direttivi sarebbero la non imposizione di norme più rigide, a meno che non si tratti di misure – dette prudenziali – che salvaguardino la stabilità finanziaria. Ma «non più onerose» (burdensome) del necessario. E solo se conformi agli standard internazionali – cioè decisi dal G20 e di Basilea. Ma chi decide la «conformità»? Rispunta nei documenti fatti uscire da Greenpeace in questi giorni il «joint Eu-Usa Financial Regolatory Forum», un ambito decisionale comune le cui regole di funzionamento (prudentemente al riparo dai Parlamenti sovrani) verrebbero stabilite dopo l’approvazione del Trattato, e darebbe l’orientamento fondamentale alla regolazione. Se la protesta dal basso non blocca il processo, il furto di democrazia diventerà quasi irreversibile. Buona piazza a tutta la campagna.