Si dimetta, senatore Robert Menéndez», titola un editoriale del New York Times, e suggerisce che il democratico di più alto rango all’interno del Comitato per le relazioni estere del Senado Usa potrebbe essere adeguatamente sostituito dal governatore Chris Christie. Il senatore Menéndez, di origine cubana, è accusato di corruzione: per aver accettato «circa un milione di dollari in forma di regali e contributi alla campagna elettorale» da parte del milionario dominicato Salomon Melgen, che risiede in Florida. In cambio, avrebbe usato «il potere del suo ufficio al Senato» per favorire Melgen in alcuni affari e per agevolare «i visti di varie sue fidanzate». Menéndez, accompagnato dall’avvocato, si è recato in tribunale per respingere i 14 capi d’accusa a suo carico. Né lui né il suo amico miliardario sono andati in carcere, ma hanno dovuto consegnare i passaporti, e Melgen (che ha la doppia cittadinanza) ha dovuto versare una cospicua cauzione.

L’editoriale del Nyt è subito stato tradotto in tutte le lingue e diffuso nelle reti sociali dai vari punti di raccolta della campagna «Obama annulla il decreto subito», che chiede il ritiro delle sanzioni Usa contro il Venezuela. Menéndez è stato il promotore del testo, approvato dalle due camere, in base al quale il 9 marzo Obama ha dichiarato il Venezuela «una minaccia straordinaria per la sicurezza nazionale» del suo paese. Una misura che ha suscitato le proteste di tutti gli organismi regionali e anche di Cina e Russia, e la mobilitazione dei movimenti sociali e delle sinistre nei cinque continenti.

Per il Vertice delle Americhe, che si terrà a Panama il 10 e 11 aprile, il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, ha lanciato una raccolta firme, dentro e fuori il paese, per consegnare a Obama 10 milioni di «no» che dicono: «il Venezuela è una speranza, non una minaccia». A oggi, le firme hanno superato gli 8 milioni e anche se la cifra non verrà raggiunta, sarà comunque una dimostrazione di sovranità. La reazione ha infatti già suscitato le ire della sottosegretaria di Stato Usa per il Latinoamerica, Roberta Jacobson, che ha espresso la sua «delusione» nei confronti dei paesi latinoamericani insorti contro le ingerenze Usa: per Jacobson, questo dimostra una «mancanza di difesa della democrazia». Ma, intanto, l’allarme è alto in quella parte del continente latinoamericano che non accetta più di essere considerata come «il cortile di casa» degli Usa.

Il quadro giuridico aperto dal decreto Obama disegna lo scenario per ulteriori passaggi verso un embargo commerciale o un blocco economico generale, come quello imposto a Cuba e ora apparentemente in discussione. E per questo è ricomparso in pubblico all’Avana anche Fidel Castro. E anche per questo i movimenti sociali si faranno sentire al vertice di Panama con le loro proposte.

Caracas è il primo partner commerciale degli Stati uniti nella vendita del petrolio e un cambio di governo significherebbe il ritorno a condizioni di favore ben più favorevoli, come quelle esistenti durante la IV Repubblica.

Intanto, la Cina aumenta sempre più l’influenza in America latina e tallona da vicinissimo gli Usa anche nei rapporti commerciali con Caracas. Il governo Maduro ha sempre precisato che gli ormai consolidati rapporti tra Pechino e il suo paese si fanno sulla base del mutuo rispetto e nell’osservanza delle leggi vigenti in Venezuela, vincolanti sia nei confronti del lavoro che dell’ambiente (recentemente è stato istituito il ministero Ecosocialista).

Tuttavia, la sinistra radicale del chavismo chiede un maggior controllo sullo sfruttamento delle miniere di carbone concesso alla Cina nelle zone dove più prezioso è il patrimonio ambientale.

In vista delle parlamentari di quest’anno, il dibattito è acceso, e la battaglia contro le ingerenze Usa non lascia in ombra le critiche “dal basso” agli errori commessi in 16 anni di governo. Un’altra occasione per discutere tra memoria e presente l’ha fornita ieri la morte dell’artista plastico Paul Del Rio, ex guerrigliero durante gli anni della IV Repubblica.