Philadelphia, soltanto «Philly» per i suoi abitanti, è una delle più antiche città degli Stati Uniti, a lungo un simbolo per il Paese: qui furono redatte la dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione alla fine del Settecento e, un secolo più tardi, si sviluppò, lungo le rive del fiume Delaware quell’enorme distretto industriale dove spiccavano «le cattedrali» delle acciaierie avvolte nel vapore che rese nota questa parte della Pennsylvania come la «Ruhr d’America».

Quella che racconta Liz Moore in I cieli di Philadelphia (NN editore, pp. 472, euro 18, traduzione di Ada Arduini) è però una città che detiene ben altri e decisamente meno invidiabili primati. Perché la metropoli, la sesta del Paese per numero di abitanti, si è trasformata da tempo in uno dei simboli più drammatici della crisi sociale che scuote l’America urbana, divenendo prima una delle capitali della Rust Belt, la «cintura della ruggine» dove la deindustrializzazione ha picchiato più duro, mietendo decine di migliaia di posti di lavoro, e quindi nel più grande mercato a cielo aperto della droga dell’intera costa orientale.

Un ritratto di Liz Moore, foto di Maggie Casey

Epicentro di questo terremoto economico e delle sue terribili conseguenze sociali è la zona di Kensigton, un ex quartiere operaio dove tra case abbandonate e magazzini dismessi si vende ogni sorta di sostanza, l’eroina e gli antidolorifici come l’ossicodone che vanno per la maggiore tra «i consumatori» americani, e ci si prostituisce agli angoli delle strade per acquistare una dose. È qui che Liz Moore ambienta un romanzo che unisce le atmosfere del poliziesco al racconto sociale, costruendo attraverso la relazione tra due sorelle cresciute in una famiglia della working class irlandese, Mickey e Kacey, la prima poliziotta, l’altra tossicodipendente, il ritratto di un mondo spinto quotidianamente ad osservare l’orlo del precipizio. 37enne ex musicista, trasferitasi a Philly da New York una decina di anni fa, un precedente romanzo già tradotto nel nostro Paese – Il peso (Neri Pozza, 2012) – Moore, che ha conosciuto in famiglia la sfida della dipendenza dalle sostanze, evoca però anche la possibilità di una redenzione, né facile né scontata, che per questo quartiere e i suoi abitanti passa anche per le molte iniziative associative cresciute nelle strade e alle quali partecipa anche la stessa autrice.

Attraverso il rapporto tra Mickey e Kacey, il suo romanzo descrive cosa significhi misurarsi ogni giorno anche nell’intimità con la dipendenza dalla droga, i rischi concreti, i sensi di colpa, le occasioni mancate che questo comporta. Tra i motivi che l’hanno spinta a scriverlo c’è anche l’eco delle vicende della sua famiglia?
In tutto quello che ho scritto fino ad ora c’è sempre una scintilla di autobiografia, anche se poi i testi finiscono per discostarsi notevolmente dagli eventi reali della mia vita. In questo caso, ha certamente giocato un ruolo la storia famigliare da cui vengo, anche se ho cercato di proteggere in ogni modo le storie vere dei miei cari. Ciò detto, sarei felice se questo libro permettesse ad altre famiglie con problemi simili di sentirsi meno sole. E ci sono molte, molte famiglie di questo tipo negli Stati Uniti, e non solo qui.

[do action=”citazione”]Prima del Covid negli Stati Uniti abbiamo usato a lungo la parola «epidemia» per descrivere la dipendenza da oppiacei: solo a Philly si contavano più di tre morti al giorno[/do]

 

Insegnando al figlio della protagonista a giocare a scacchi, un’anziana vicina di casa gli spiega che non ci sono «pezzi cattivi: sono cattivi e buoni entrambi, tutti i pezzi». Un po’ come accade ai poliziotti del suo libro che non stanno sempre dalla parte giusta. È questo il suo modo di interpretare la «crime novel»?
I cieli di Philadelphia rappresenta la mia prima incursione nel genere e per questo mi sono dovuta misurare anche con personaggi per i quali non credo esista alcuna possibilità di riscatto: stiamo parlando di violenza e omicidi. Non credo però di aver indugiato troppo nei cliché e nelle convenzioni del poliziesco, presentando delle figure che hanno una propria complessità, non sempre riconducibile in modo così netto al confine tra il bene e il male. Quanto al lavoro degli agenti, ho imparato molto parlando con diversi poliziotti, uno dei quali mi ha portato a fare un giro nella zona di Fishtown. Le ore trascorse con lui cercando di capire cosa succede dall’inizio alla fine di un turno sono state preziose e mi hanno offerto l’opportunità di conoscere i piccoli dettagli che sarebbe stato difficile ottenere altrimenti. Nel libro si parla anche di comportamenti sbagliati da parte della polizia, cose di cui parlavano le ragazze della zona, e che diverse inchieste giornalistiche hanno confermato in seguito.

Prima del coronavirus, la diffusione degli oppiacei negli Stati Uniti era considerata la prima causa di morte nel Paese. Cosa significa questo concretamente per un quartiere e i suoi abitanti? E cosa è cambiato con l’arrivo della pandemia?
È interessante che abbiamo usato per così tanto tempo proprio la parola «epidemia» per descrivere la crisi della dipendenza da oppiacei: solo a Philadelphia nel 2017 si erano registrati oltre 1200 morti legate alla droga e, per quanto diminuite, negli anni successivi si è trattato comunque di almeno due o tre decessi al giorno. Con l’arrivo del virus il problema è stato naturalmente aggravato. Prima della pandemia il sindaco aveva formato una task force per affrontare il problema e si erano fatti alcuni passi importanti, come i piani per creare il primo «Supervised-Injection Site» della nazione, un centro dove i tossicodipendenti potessero iniettarsi le sostanze assistiti da medici e da specialisti. Ma il Coronavirus ha colpito proprio nel momento in cui quell’iniziativa sembrava destinata ad avere successo e ora è stata messa da parte mentre la città fa tutto il possibile per abbassare la velocità di trasmissione del Covid-19. La città è tra quelle dove si è riusciti a prevenire un «picco» troppo elevato, anche se Kensington è stato molto colpito, questo perché qui vivono molti senzatetto che non prendono precauzioni o che sono più difficili da assistere.

[do action=”citazione”]Ho aiutato un fotografo che lavorava a un progetto sociale sulle persone coinvolte con la droga e la prostituzione lungo Kensington Avenue. Il libro è nato anche lì[/do]

 

Dal suo romanzo emerge come alla crisi del quartiere si sia risposto anche con la gentrificazione che però come sempre in questi casi non coinvolge gli antichi abitanti. Ad un certo punto, Mickey entra con il collega di pattuglia in un bar appena aperto e piuttosto «chic» che secondo la giovane donna è popolato da gente «che sembra scesa da un altro pianeta».
La città ha cominciato a perdere residenti fin dagli anni Cinquanta – quando le famiglie dei lavoratori bianchi si sono spostati nelle periferie residenziali, nda -. Solo a partire dal 2005 questo processo ha cominciato a conoscere una certa inversione, e la popolazione ha ripreso a salire. In parte questo si deve al fatto che Philly rappresenta un’alternativa più economica rispetto alla sua grande vicina: New York City è a circa 2 ore di macchina e 1 e mezza di treno. Ma ha anche a che fare con la cultura vibrante, che si esprime attraverso la musica, l’arte e la letteratura, che si respira in città. Eppure, nonostante l’afflusso di giovani relativamente ricchi che si trasferiscono in alcuni suoi quartieri, non solo quelli nei quali si assiste alla gentrificazione, e che spesso è alla base di una certa tensione tra i nuovi arrivati e i residenti di lunga data, Philadelphia rimane la più povera tra le grandi città degli Stati Uniti.

Quando si è trasferita a Philly come è entrata in contatto con la realtà che racconta nel romanzo?
Ero nuova della città e cercavo un modo per partecipare alle iniziative che si stavano sviluppando nella comunità. Un amico fotografo lavorava a un progetto relativo alle persone coinvolte nella tossicodipendenza e nella prostituzione lungo Kensington Avenue. Accompagnandolo nel quartiere ho conosciuto prima i francescani che seguono i senzatetto e quindi le animatrici del centro femminile Thea Bowman dove ho iniziato a tenere dei corsi di scrittura e a fare la volontaria per aiutare le ragazze che vivono nella zona.

Il suo libro racconta di vicende dolorose ma non chiude alla speranza o alla possibilità delle redenzione. Qualcosa di possibile nella realtà?
Senza dubbio. Inoltre era giusto offrire una chance in più ai personaggi. Non mi interessa dipingere un ritratto completamente desolante della vita che si basa su un equilibrio continuo tra speranza e disperazione: quindi credo che lo spingersi troppo lontano in entrambe le direzioni, questo sì sembrerebbe irrealistico.