Non sono per niente stanca, parliamo. Così Liv Ullmann si è rivolta al pubblico a tarda sera lo scorso novembre a Firenze al Festival dei Popoli, a fine proiezione di A road less travelled di Dheeraj Akolkar, il documentario a lei dedicato, che prova a confrontarsi con l’incommensurabilità del suo tracciato.

In sala un’energia spirituale rara, dirompente. Disattesi gli stereotipi della star – cui mai ha aderito, scegliendo «una strada meno battuta»- una sciarpa del colore degli occhi («puoi caderci dentro, guardano al mondo con amore incondizionato», dirà Cate Blanchett nel film), il viso una filigrana di segni da accogliere, – prendendo la parola, Ullmann ha confidato un’esperienza privata, legata all’Alzheimer che ha colpito il marito: il puro salutarsi con la mano per dirsi buonanotte – e lì, anche verso chi c’era, ha compiuto quel gesto.

Dunque, la relazione e in particolare quella di coppia. Fino alla sua essenza più sottile. E oltre, le infinite parole, la ginnastica dei conflitti e gli scandagli che hanno fatto sì che nell’immaginario collettivo non fosse più la stessa dopo le sue analisi di attrice in unione creativa con Ingmar Bergman, e come regista. (Scampoli di Scene da un matrimonio intravisti in tv da piccola mi hanno accompagnato da allora).

Ma cita anche, amatissimo, Karl e Kristina di Jan Troell (’71). Sempre una coppia, di emigranti svedesi verso gli Stati Uniti – (anni dopo sarà fondatrice dell’associazione Women for Refugees Women and Children): «lei era quello che volevo essere, colma d’amore per i figli e il marito – lui prima di morire le diceva, siamo i migliori amici».
Allo stesso modo, nel 2007, si ritroverà a Fårö accanto a Bergman morente. Forse l’ultima scena di un film cominciato anni prima, con l’inarrivabile di Persona (’66), come giocare a soli venticinque anni a essere il suo alter ego di uomo maturo, che le confida di sentire che loro due sono «connessi nel dolore», e poi a seguire, insieme, altri capolavori ma non Fanny e Alexander («troppo triste per me in quel momento»), abissali close-up a mostrare «quello che c’è dietro la pelle» e una gigantesca comunanza, disvelata anche da foto d’archivio tenerissime e inaspettate facce buffe dei due. Infine l’appoggio di lui quando Ullmann dalla scrittura giunge alla regia, riuscendo anche a far prevalere la propria autorialità dinanzi a una divergenza sul finale di un film scritto da lui.
Taglio classico, interviste a grandi nomi, tra cui anche Jessica Chastain, Jeremy Irons, Sam Waterston …, il documentario individua quindi tre fiumi nell’oceano della biografia di Ullmann: l’attrice, la storyteller e la viaggiatrice attivista.

E così si srotola, dalla nascita a Tokyo nel’38 – causa lavoro del padre, ingegnere aereonautico – alla morte improvvisa di quest’ultimo quando Liv ha sei anni («è ancora seduto in galleria a guardarmi, come le persone care che non ci sono più»), al rifiuto da parte della scuola di teatro di Oslo, alla prima esperienza sul campo in provincia, fino alla fioritura in Europa – mai in Norvegia – e fino a Hollywood (autoironica, confida che non sapeva né cantare né ballare), senza dimenticare la sua radice di attrice europea, quindi la maternità e la scrittura (con relativa trappola del senso di colpa), il femminismo e i discorsi alla Casa Bianca, un cruciale viaggio da attivista in Cambogia e in 40 paesi con l’Unicef, fino a prendersi cura di un ragazzo della Sierra Leone per tutta la vita e fino al desiderio di non mancare alla propria missione umana – la rabbia come motore dell’azione. In Vietnam, abbracciando una donna anziana malata di lebbra, racconta di aver percepito in lei la propria madre, la nonna, la sorella.

A fine proiezione mi è parsa ardua ogni domanda, ho desiderato stare a risentire in silenzio l’eco spirituale di quanto ci ha trasmesso, di cui sento abbiamo un bisogno immane. Grazie infinite.
Non ho diretto io il documentario. È stato il regista – che ha origini indiane e vive in Inghilterra – a venire da me. Mi sono affidata. Non avevo idea di chi stesse intervistando, né di cosa avesse trovato negli archivi. Sapevo soltanto che voleva che al centro ci fosse, l’essere umano. E più di tutto la dimensione spirituale.

Quello di Nora di Casa di bambola è un ruolo che ha continuato a elaborare per tutta la vita. Jessica Chastain racconta come lei sia convinta che, nonostante la fine del dramma scritta da Ibsen, Nora torni a casa…
La casa di Nora è la stessa in cui sono cresciuta. Perché nel modo più assoluto posso dire: io sono Nora. Da ragazza sono stata addirittura timida, ma poi ho imparato che a conformarsi alle aspettative degli altri – come accade Nora – si arriva a chiedersi: che modello rappresento per i miei figli? Così, continuando a interpretarla tante volte – in Norvegia ma soprattutto a Broadway, amatissima dai gruppi femministi – ho colto profondamente chi è: una donna che non osa fare nulla autonomamente e che a un certo punto è folgorata dalla coscienza di abitare una vita falsa. E se è vero che nel testo di Ibsen leggiamo che Nora va via, sono sicura che lei il giorno successivo torni. Perché l’eco della porta che ha lasciato dietro di sé si è propagata per tutto il mondo. Così Nora torna per abitare la responsabilità delle sue scelte e perché potrà essere una donna una donna più vera.

E provando a immaginare la casa di Nora adesso?
Per anni, pur lavorando come regista in produzioni internazionali, in quanto donna – sembra incredibile – non avevo un ufficio tutto mio: ecco, lei torna anche per insediare il suo ufficio… La casa di Nora, ora come un tempo, è la mia casa.

E come ricorda la casa di Elena in «Speriamo che sia femmina» di Monicelli (’87): quasi interamente abitata da donne, con lo zio Gugu e senza telefono?
Ho ricordi bellissimi. Il cinema italiano – e soprattutto De Sica di Umberto D., Ladri di biciclette, Miracolo a Milano -, è stata la via che mi ha guidato verso questo mondo, al di là dei confini familiari in cui ero cresciuta in Norvegia. Così ho adorato la casa di Elena nella campagna toscana, la vicinanza tra donne che era il cuore del film e qualcosa di reale, percepibile anche dagli uomini. Magnifico, poi, che non ci fosse telefono. Non sopporto che si sia ridotto così tanto il rapporto in presenza, che siamo perennemente distratti dal guardarci, dall’ascolto, essenziale per gli artisti e per tutti gli esseri umani. Così vorrei essere ancora una volta in quella casa, con quelle persone, immersa in quei conflitti, in quelle discussioni…

Nel film associa la morte di suo padre a una cavea su cui ha deposto le sue successive esperienze umane e artistiche, legge il suo amato Tolstoj e alcune folgoranti righe sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: dovesse fare un documentario a traslare nel mondo la dimensione interiore su cui ha sempre indagato, dove rivolgerebbe lo sguardo?
La malattia di mio marito mi lascia poco tempo per scrivere, la cosa che ho amato di più oltre a recitare. Però se pensassi a un documentario, mi rivolgerei a chi non ha voce e ha tantissimo da dire. A chi conosce cosa sia la guerra, in Ucraina a Gaza o altrove – è forse il momento più orribile della nostra storia, e in guerra non ci sono eroi -. Così guarderei a tutte quelle donne che affrontano traversie immani per sopravvivere, ai luoghi meno esposti, alla miseria, per far sì che si sollevi in alto come sapeva fare De Sica e perché non esiste l’Altro e siamo tutti una sola cosa. Apprezzo molto la domanda e vorrei poterle dare una risposta. Se fossimo amiche e ci ritrovassimo a sederci insieme un giorno, potremmo parlarne…

Un ringraziamento al Festival dei Popoli, al direttore Alessandro Stellino, all’ufficio stampa e al prezioso contributo da interprete di Donatella Betti Baggio