A distanza di più di un anno, ci troviamo a riparlare della serie antologica Dark Pictures di Supermassive Games e, nello specifico, del secondo capitolo, Little Hope, sbarcato nei negozi a ridosso di Halloween 2020. Se il primo frammento, Man of medan, ci aveva fatto una buona impressione, il suo seguito prometteva, almeno dai trailer, uno spettacolo ancora più spaventoso. Si passa dall’inusuale gotico marino al classico racconto di streghe e villaggi infestati, spingendo il linguaggio cinematografico in una dimensione di non ritorno videoludica.

Purtroppo il limite (e la forza) di questo perfezionismo è un’avventura di poche ore, meno del precedente capitolo, troppo vicino ai walking simulator, pieno d’atmosfera ma anche così poco (ri)giocabile. Ci si trova per tre quarti della storia a vagare in mezzo alla nebbia, di tanto in tanto svegliati da un fantasma che urla, fino all’ultima parte, la più interessante, in cui i quick time events danno quella scossa di interattività che ci fino a quel momento ci era stata negata.

Non che Little Hope sia un brutto gioco, ma è un ibrido alla Shin’ya Tsukamoto di carne e metallo, un tentativo pieno di hybris da parte degli sviluppatori di imitare il lavoro di Dio, di plasmare la materia a nostro piacimento come l’homunculus alchemico che fa capolino nel De rerum natura. A livello visivo, pur non raggiungendo la perfezione di un Until dawn, il gioco è meraviglioso: pieno d’atmosfera, con personaggi finalmente non stereotipati dai B movie horror, capaci di vivere coerentemente la loro (non) vita digitale, poi, ciliegina sulla torta, la grafica quasi fotorealistica da orgasmo immediato. Purtroppo a mancare il bersaglio è la presunzione di Supermassive Games di non aver bisogno di una parte sufficientemente ludica per creare l’ibridro cinegame, a metà tra il film e il videogioco, senza essere purtroppo né l’uno né l’altro, un po’ come quei cibi cinesi agropiccanti che risultano al palato un pastrocchio senza identità.

Dispiace perché fa rabbia vedere in Little Hope i semi di un Silent Hill mancato, con queste anime perse che si aggirano tra le strade incarnando peccati mai mondati, bellissimi cenobiti barkeriani che non avrebbero sfigurato in una versione remake del capolavoro Konami. Interessante anche la location: una cittadina abbandonata che richiama la tristemente famosa Salem in Massachussets che fu scenario, nel 1691, di un’ingiusta e misogina caccia alle streghe in onore di un Dio che preferiva bruciare i peccatori piuttosto che graziarli. Non convince soprattutto l’ennesimo ribaltone narrativo che Supermassive Games si ostina a ripetere, nel finale, relegando il soprannaturale a mero espediente narrativo, figlio di un cinema ormai sepolto dal lontano 1999 di The Sixth Sense – Il sesto senso e di tutti i suoi figli bastardi al cielo di vaniglia. Manca il coraggio di creare un librogame trasposto in videogioco, capace di appassionare come il miracolo Life in strange o The walking dead, ma forse a 29 e 90 chiediamo troppo.