Il gaelico era la lingua parlata in Irlanda dalla stragrande maggioranza della popolazione fino al XIX secolo, quando la politica colonialista della Gran Bretagna portò a un suo rapido declino e al prevalere dell’inglese. Nel 1922, al momento della conquista dell’indipendenza, soltanto un irlandese su dieci parlava correntemente gaelico. Il revival della lingua indigena irlandese, la cui ricchissima tradizione letteraria risale al V secolo, era stato però un elemento chiave del movimento indipendista. Il gaelico divenne materia obbligatoria a scuola, dalle elementari fino alla maturità, e la costituzione del 1937 ne sancì ufficialmente il ruolo di prima lingua nazionale.
Gli straordinari esiti della letteratura irlandese in lingua inglese nel primo Novecento sono in parte dovuti al fatto che l’inglese era per gli irlandesi una lingua di recente acquisizione, parlata in una forma ancora venata di interferenze grammaticali e lessicali provenienti dal gaelico.

Due diverse traduzioni
Gli sforzi per promuovere una letteratura moderna in gaelico hanno avuto risultati diseguali. Le comunità che parlano gaelico sono disperse ed economicamente povere; difficilmente si prestano alla creazione di un universo dialogico e romanzesco. Tanto più straordinaria è pertanto l’opera di Máirtín Ó Cadhain, autore di una prosa modernista e originale, studioso poliglotta che ha trascorso diversi anni in carcere per aver partecipato ad attività dell’Ira. Cré na Cille – datato 1949 –, letteralmente L’argilla del cimitero, è il capolavoro indiscusso della moderna prosa in lingua gaelica: l’idea stessa che possa esistere un romanzo moderno in gaelico si basa in buona parte su questo testo. Gli eredi di Ó Cadhain hanno a lungo vietato di tradurre in inglese il romanzo, temendo che la traduzione avrebbe soppiantato l’originale, visto che chi conosce il gaelico di solito legge l’inglese con più facilità. I nuovi, recenti detentori dei diritti editoriali ne hanno invece permesso la pubblicazione in inglese in due diverse versioni: libera, per non dire inaffidabile, quella di Alan Titley intitolata The Dirty Dust, assai più fedele quella di Liam Mac Con Iomaire e Tim Robinson intitolata Graveyard Clay, sulla quale si basa l’edizione appena uscita per Lindau (pp. 400, euro 22,00), che utilizza a confronto anche altre versioni del testo e include all’inizio la prefazione di Alan Titley.

Divisi in vita e in morte
Il romanzo mette in scena le conversazioni tra i cadaveri in un cimitero, che anche da morti continuano a litigare per i motivi che li hanno divisi in vita. Fin dalle prime battute la satira incalza il tema centrale del romanzo, che riguarda la collocazione nella scala sociale. L’immobilità dei cadaveri chiusi nelle loro bare fa da tagliente metafora dell’immobilismo socio-economico che caratterizza le comunità gaelofone: «Chissà se mi hanno sotterrata nel lotto da una sterlina o in quello da quindici scellini. O il diavolo li avrà convinti a buttarmi nel lotto da mezza ghinea, dopo tutte le mie raccomandazioni?»

Elementi di suspense provengono dalle notizie del mondo dei vivi portate dai cadaveri di fresca sepoltura. Fonte di ansia per i morti sono i dettagli relativi ai funerali, le dimensioni e il costo delle lapidi. Ripetitivo, il dialogo si fa meschino: ogni personaggio ha tratti ossessivi che svela nel ripetere frasi e domande che restano senza risposta: «La croce sopra di me è di pietra calcarea locale? Chi ha ereditato il mio campo?». Anche il lettore, che all’inizio fa fatica a distinguere le voci dei vari defunti, alla lunga si fa impaziente di ottenere risposte a queste miserabili domande, e finisce con l’immedesimarsi nei cadaveri ansiosamente in attesa di nuovi arrivi sottoterra.

Un gesto politico
Romanzo cupo ed esilarante, Cré na Cille è il ritratto a più voci di una comunità tradizionale che sta tardivamente incontrando la modernità in forma di automobili, locali notturni, cinema e lingua inglesi. Nello scrivere un romanzo modernista ed erudito, radicato nel vissuto di una comunità contadina e periferica, Ó Cadhain compie un gesto anche politico; di certo, se Pasolini avesse saputo il gaelico, avrebbe letto Cré na Cille con un certo interesse. Ó Cadhain era consapevole che, al momento della stesura del romanzo, il mondo da lui descritto era già anacronistico, e la lingua dei personaggi andava via via scomparendo. La Gaeltacht – l’area in cui l’irlandese è ancora usato quotidianamente – andava restringendosi durante la vita di Ó Cadhain e da allora ha continuato a ridursi.

Il sud di Connemara, luogo di nascita di Ó Cadhain, pienamente irlandofono nella sua infanzia, è oggi completamente bilingue. Anche nella mente di coloro che crescono usando l’irlandese come lingua materna, l’inglese ha assunto ormai un rilievo maggiore del gaelico e la gamma delle esperienze di vita vissute in irlandese continua a restringersi. Una delle ragioni per cui Ó Cadhain ambienta il romanzo in un cimitero è perché quello è l’unico luogo che possa ancora custodire un mondo linguistico ormai perduto tra i vivi.
Una delle trovate più riuscite dell’opera è il contrasto tra l’ambientazione povera e claustrofobica – i personaggi confinati nelle loro bare sono ancora prigionieri delle preoccupazioni e della meschinità del mondo ristretto in cui sono vissuti – e la straordinaria varietà e ricchezza del linguaggio con cui si esprimono. Il romanzo è pieno di parole rare, espressioni insolite, varietà lessicali e retoriche spesso difficili da decifrare anche per i lettori irlandesi più esperti.

Questo contrasto ha un valore fondamentale nel romanzo ma è ovviamente difficile da rendere in traduzione. La versione inglese su cui si basa la traduzione italiana riproduce la straordinaria energia e l’umorismo dei dialoghi ma la lingua vi appare per forza livellata. La versione italiana, traduzione d’una traduzione, amplifica inevitabilmente queste perdite. I traduttori domesticano le espressioni gaeliche con formule inglesi equivalenti ma immancabilmente più consunte. Uno dei personaggi osserva che una volta che il dolore ha raggiunto i reni «tá do chaiscín meilte», «il grano è macinato»; la versione inglese sostituisce la locuzione irlandese con il comune modo di dire «la tua oca è cotta», che in italiano diventa «la frittata è fatta». Ne consegue un doppio appiattimento che appanna la specificità metaforica dell’originale e ingrigisce l’universo semantico del romanzo.

L’Irlanda è stata una nazione di lingua irlandese fino al XIX secolo e il gaelico è parte integrante del suo Dna. La tradizione letteraria in irlandese è parallela a quella in inglese sebbene spesso negletta rispetto a quest’ultima (tanto che all’estero, Italia compresa, l’irlandese è talvolta ritenuto una forma dialettale dell’inglese, mentre ne è lontano quanto se non più dell’italiano).

L’assedio dell’inglese
Non ci si può che rallegrare che Cré na Cille sia ora disponibile anche in italiano, e la squadra di traduttori va congratulata per questa traduzione vivace e scrupolosa della versione inglese. In una nota essi difendono la loro scelta di tradurre dalla versione inglese e non dal testo originale, citando opere quali la Bibbia e l’Iliade, spesso conosciuti attraverso traduzioni di traduzioni. In questo caso però non si tratta di un testo classico e largamente diffuso, bensì di un’opera scritta in un idioma a rischio che sopravvive a stento sotto l’assedio di una delle lingue più diffuse e influenti del mondo. Questo capolavoro della moderna prosa europea è anche un atto di ribellione linguistica che deriva parte del proprio significato specificamente dal fatto di non essere scritto in inglese. Il 2017 ha visto la pubblicazione di traduzioni di Cré na Cille in ceco e olandese: diversamente da quanto purtroppo è accaduto in Italia, in entrambi i casi il testo è stato tra dotto direttamente dal gaelico.