Per un’intera generazione politica la legge elettorale meglio conosciuta come «legge truffa», promulgata il 31 marzo 1953 e rimasta in vigore per una sola tornata elettorale, nell’aprile dello stesso anno, è stata un mito: la dimostrazione di come la mobilitazione popolare, restando nei limiti della più assoluta legalità, potesse battere e umiliare una manovra autoritaria. Quello fu peraltro l’unico caso di legge elettorale varata con il voto di fiducia prima dell’Italicum. Decenni più tardi se ne parlava ancora come di una enormità intollerabile. I tempi cambiano.

Cambiano parecchio, per la verità. Renzi, se gli squadernassero di fronte quella che allora pareva una quasi inimmaginabile forzatura, se la caverebbe con un’alzata di spalle: «Robetta». Figurarsi, se un partito o una coalizione superava il 50% balzava automaticamente al 65%. Il bello è regalare seggi a chi dalla maggioranza è lontanissimo. Sennò ci stiamo prendendo in giro e miriamo a non cambiare niente. All’epoca, quei seggi regalati, fortemente voluti da De Gasperi che ci scommise e ci perse l’intero suo futuro politico, sembravano invece fare a cazzotti con i principi basilari della democrazia, meritevoli pertanto di fare a cazzotti anche in Parlamento e nelle piazze. Senza esagerare però, perché erano legione quelli che scalpitavano per mettere il Pci fuori legge, e gli americani martellavano invocando la drastica misura.

Qualsiasi cosa si pensi del Migliore, nessuno potrà mai revocare in dubbio l’estrema abilità che dimostrò in quel frangente. Togliatti puntò anche sulla piazza, però evitando di scatenarla: in anni nei quali le dita correvano facilmente al grilletto, esagerare significava spalancare le porte alla messa fuori legge. L’opposizione puntò dunque su una battaglia parlamentare che, pur persa in partenza, avrebbe potuto suscitare un moto di indignazione popolare tale da sconfiggere fuori dal Parlamento ciò che non poteva essere fermato al suo interno.
Poteva funzionare e in effetti funzionò. Tutto sta in come si affronta l’incombenza, però. Se denunci che una legge ammazza la democrazia e poi, quando arriva nell’aula, ti fai trovare in venti, tanto ancora non si vota e poi è pure lunedì, non puoi sperare che le masse ti prendano sul serio. Se ti sfondi i polmoni in decine di ore di ostruzionismo e poi, se del caso, non esiti a menare le mani anche tra gli austeri banchi, il discorso cambia. Alla Camera l’ostruzionismo durò giorni e giorni. Le regole del tempo lo permettevano, i parlamentari d’opposizione si guadagnavano lo stipendio e fecero faville. Il 14 gennaio De Gasperi, presidente del consiglio, mise la fiducia sulla legge elettorale. Togliatti provò a evitare la forzatura offrendo la sospensione dell’ostruzionismo in cambio di un referendum popolare sulla legge. Quando Il presidente del consiglio rifiutò l’offerta e passò alla fiducia, i fratelli Pajetta staccarono i braccioli delle poltroncine e iniziarono a rotearle come mazze. Era democrazia anche quella. In piazza, che di solito incide più di Facebook, succedeva di peggio. Botte da orbi 150 arresti a Roma, peggio e ovunque il giorno dopo, con tanto di direttore dell’Unità, Pietro Ingrao, manganellato dalla Celere. Ma qualche somiglianza con la situazione attuale in realtà c’è. Il capo dello Stato, Luigi Einaudi, non disse una parola, per «non interferire nelle procedure parlamentari».

La giostra ripartì un paio di mesi dopo al Senato. De Gasperi voleva la fiducia anche lì. Il presidente del Senato Giuseppe Paratore rassegnò le dimissioni contro la prepotenza del governo. Roba che solo a leggerla per Pietro Grasso servirebbero i sali. Decisionista, De Gasperi lo sostituì di repente col malcapitato Meuccio Ruini, a cui toccò presiedere una seduta convocata addirittura la domenica di Pasqua, un’ideona che manderebbe in visibilio Renzi, ma destinata finire con botte da orbi. I senatori fecero il possibile, e con successo, per superare i colleghi deputati: lancio d’oggetti e volumi, insulti a ruota libera («Presidente, lei è un porco», firmato Sandro Pertini), assalti alla presidenza, schiaffoni, poltrone adoperate dai commessi per erigere barricate in difesa del povero Ruini, che comunque finì con la testa rotta, ministri presi a sberle, il sottosegretario Andreotti lasciato a presidiare i banchi del governo, col cestino della carta straccia in testa a mo’ di elmo.

La legge passò. Alle elezioni la coalizione guidata dalla Dc non ottenne il 50%. La legge fu abrogata, in giugno. Tante volte le battaglie parlamentari servono. Quando si combattono davvero.