Chissà cosa ha spinto il festival di Roma a scegliere come film d’apertura L’ultima ruota del carro (in sala dal prossimo giovedì, anche questo è un buon motivo). Forse la «logica» del tappeto rosso col richiamo a colpo sicuro dei suoi protagonisti, Ricky Memphis e l’iconico Elio Germano. O l’ansia da cinema italiano, in pieno dibattito da incassi col boom di Checco Zalone, ma anche con l’agognato (dopo anni di astinenza) Leone a Venezia, pure se con un film poco a norma nel sistema istituzionale – cosa che non ha impedito a Sacro Gra di Gianfranco Rosi un ottimo successo di botteghino. C’è poi la firma, Giovanni Veronesi, il regista dei Manuale d’amore, richiamo sicuramente «popolare» per il pubblico.
Il film è una sorta di plastico della storia italiana, diciamo tra La meglio gioventù di Giordana e Le cose che restano di Tavarelli (somiglia più a quest’ultimo), solo che alla dimensione corale Veronesi sostituisce quella del personaggio unico, Ernesto Marchetti (Germano), un tipo naif di italiano «medio», la cui vita si intreccia ai passaggi chiave del nostro paese. Dal 1967, quando Ernesto è cucciolo, e il padre si sgola inutilmente davanti al campetto di calcio – che tanto l’amico Giacinto (Memphis) non gliela passa la palla. «É uno stronzo» chiosa il ragazzino. E ha pure ragione, con quella saggezza adulta che solo i piccoli hanno. Però Ernesto è un disastro pure a scuola, così il padre lo porta con sé a bottega. «Sei l’ultima ruota del carro» gli urla, a forza di sentirlo il poveretto finirà per crederci.
Dieci anni dopo è il 77. In una Roma senza scontri né poliziotti, Ernesto, romanista coi capelli lunghi e i jeans a zampa d’elefante, lavora ancora insieme al padre. Ma quando parcheggiano nella via del centro dietro a una Renault rossa, prima che arrivino i carabinieri, abbiamo già capito tutto. Il film finisce lì, se non fosse che la via all’uscita è bloccata da una fila di sedie troppo compatta, dove il minimo respiro fa arrabbiare uno seduto dietro.
Siamo a Moro, per chi non l’avesse capito. E via così: Ernesto si sposa con la ragazza della sua vita, Alessandra Mastronardi (Cesaroni), arriva il figlio. L’Italia vince i Mondiali di calcio contro la Germania (’82), gli anni Ottanta trionfano nei Duran Duran sentiti in cuffia (chi ricorda i walkman?) dalla nuova e intraprendente fidanzata di Giacinto con cui Ernesto ha messo in piedi una ditta di trasporti. Solo che lei lavora per i socialisti, e Giacinto che è un po’ «fijo de ’na mignotta» – come si dice a Roma, (ma lo sapevamo da quel famoso campetto di calcio) – lo molla seguendo l’odore dei soldi. E quando Ernesto si spacca la schiena – letteralmente – a forza di portare mobili sulle scale lo raggiunge. Solo che lui è ancora sempre e solo «l’ultima ruota del carro», difatti mentre Giacinto e il capo vanno in galera, Ernesto ricomincia a portare mobili.
É tempo di Tangentopoli, Craxi è finito sotto alle monetine davanti al Raphael, pochi anni dopo un imprenditore milanese scenderà in politica per salvare l’Italia. Giacinto si è già trasferito a Milano mentre le feste socialiste lasciano il posto alle fiction nel giardino della stessa nobildonna romana. A vederle quelle feste di demichelisiana memoria non sembrano poi così diverse da quelle della politica di oggi – da Palazzo Grazioli al Batman di Anagni … In fondo questa Italia è pure lei sempre la stessa, dai Settanta a oggi c’è sempre un onorevole, un deputato, qualcuno che ti raccomanda, qualcuno che ti da la spintarella (sennò i pentastellari come farebbero?).
L’ispirazione a Veronesi viene da una persona «vera», Ernesto Fioretti, autista e tuttofare amatissimo nel cinema romano, che ha partecipato alla sceneggiatura. Alla fine un cartello ci dice che Ernesto è sempre convinto che dalla sua vita si può trarre un film – tutto vero, tutto finzione insomma – intanto continua a vivere a Borgo Pio, superstite di quella romanità deportata in periferie remote dal mercato immobiliare. Corruzione, malasanità, i cosiddetti «voltagabbana», nobiltà decaduta e una Roma da «grande bellezza», nella vita di Ernesto Veronesi ci mette proprio tutto. C’è pure l’amico artista, che odia sentirsi chimare «maestro», sarebbe Mario Schifano (interpretato da Alessandro Haber) tra quadri, allergie da fieno (perché mai si dicesse che pippa, si fa solo l’allusione) e tic che sconfinano nella caricatura insoppportabile dell’artista «maudit».
Il riferimento è, ovviamente, alla commedia all’italiana, la coppia di amici, il tonto e il furbo, gli amori, i tradimenti, i drammi e le risate, i vizi e le virtù (?) dell’italiano medio. Il punto non è la vita di Ernesto, ma tutto il resto: regia, scrittura, battute, direzione degli attori – pure se Memphis e Germano vanno fin troppo da soli. E soprattutto quel tocco in più che imbastisce l’aria del tempo con le vicende personali, qui talmente sottolineato da diventare inesistente. Mai una sorpresa, mai l’imprevisto della cattiveria o del cinismo, solo un elenco di aneddoti così ammiccanti da diventare indigesti.
Apertura in chiave di commedia all’italiana anche per il CineMaxxi con L’amministratore di Vincenzo Marra, costruito intorno alla figura dell’avvocato Umberto Montella, amministratore di condomini a Napoli. Per chi conosce un po’ il cinema di Marra – Il gemello – sarà facile rirtovare qui i suoi luoghi, e il suo stile, che tende a sottolineare persone/personaggi, la natura di napoletanità del loro essere, lingua e mimica facciale, gesti e parole. Nell’ufficio dell’amministratore sotto Natale, tra pandori e pacchi dono, sfila un’umanità mischiata, ognuno coi suoi problemi che sono pezzetti di società. Napoli, Italia verrebbe da dire di fronte al cataclisma di case piene di topi, abusi piccoli e grandi, faide familiari, borghesi decaduti e lui lì, da uno all’altro con la calma ineccepibile della sciarpa di caschemere che ne ha viste tante.
Facciamo un passo indietro, si parla ora tanto, tantissimo del documnetario, dopo appunto il Leone veneziano a Rosi. Il pregio, e la scommessa di Marra in questo film, è che rispetto a tendenze e sxelte che sembrano ormai quasi obbligati in tanti doc italiani – migranti, marginali ecc – convinti che il soggetto basti da sé a parlare del nostro tempo, o quantomeno a garantire in confronto con la realtà – L’amministratore ci parla di oggi, del nostro paese, e delle sue parti meno visibili – che sono molte – partendo dall’«ordinario» che poi è pure sempre straordinario. Lo fa senza retorica, né falsi compiacimenti, con precisione, puntiglio, e anche qualche sgradevolezza, lasciandosi dietro la tentazione del personaggio buono a tutto tondo.
Il nostro amministratore, come chiunque altri, ha pure lui i suoi chiaroscuri (e per fortuna). Ma sono quelle le pieghe in cui la realtà è più forte, e scappa di mano. Il resto è la scommessa del cinema, rispetto alla quale ciascuno cerca il proprio metodo. Marra il suo lo ha trovato, e lo maneggia con sicurezza e con attenzione.