Giuseppe Berto scrisse un «settecentesco» Elogio della Vanità nel 1965, per una strenna Rizzoli, dopo il grandissimo successo de Il male oscuro, celebrato dal Premio Viareggio e dal Campiello vinti nello stesso anno. Il testo, commissionato da Giancarlo Vigorelli, che pretese poi alcune modifiche, segnatamente di eliminare i riferimenti troppo evidenti al presente, alla fine non venne edito. Venne ritrovato nel 2006 nel fondo di Vigorelli, e fu segnalato, con un acuto saggio, da Cesare De Michelis. Questa rarità, uno scritto che gioca esplicitamente con i modelli veneti settecenteschi, viene ora riproposta, insieme al testo di De Michelis, da Settecolori (pp. 80, € 12,00). Vi si affronta il tema del narcisismo, che Berto vedeva centrale all’epoca del boom, periodo in cui aveva deciso di vivere in un luogo remoto, a Capo Vaticano, in Calabria, sentendo di essere radicalmente lontano dal mondo delle lettere romano, che incrociava nella sua attività di sceneggiatore per il cinema.

De Michelis segnala come in un racconto centrale della raccolta Un po’ di successo (1963), dal titolo evidente di «Esaurimento nervoso», raccontando con molta autoironia la sua malattia, Berto segnalasse come unica gioia della depressione il gusto del malato per l’esibizione del male e per il suo racconto a chiunque si prestasse a riceverlo. La scrittura prende avvio da una pagina leopardiana: il «Dialogo tra il galantuomo e il mondo» delle Operette morali, per incontrare subito l’Ecclesiaste, che riassume «tutto è vanità nel mondo». Il successo, termine su cui Berto indaga con acutezza, da tutti desiderato in un’epoca in cui è portato come massimo valore, può essere ottenuto facendo ricorso a mezzi tecnologici inauditi, ciò che, malgrado i successi della psicologia del profondo, proietta questa passione collettiva in una terra incognita, di cui poco si conosce. Lo scrittore propone quindi una divisione di senso, tra narcisismo, esibizionismo e vanità, identificando queste passioni, rispettivamente: «nelle incredibili cravatte di angora viola dello scrittore Carlo Levi, nell’abbigliamento in genere dell’uomo di mondo Giovanni Nuvoletti o nella curiosa mania di un grande musicista che, scrivendo a sua madre, così compilava l’indirizzo: alla signora Rossini madre del celebre maestro, Bologna».

Dell’esibizionismo egli non vede come campioni, prevedibilmente, Gabriele D’Annunzio o Sant’Ignazio di Loyola, quanto: «un tizio che non nomino giusto per punirlo, il quale nel 356 avanti Cristo, a un dipresso centocinquant’anni prima che l’Ecclesiaste intonasse la sua sacrosanta filippica contro la vanità, al solo scopo di rendersi famoso – e tutto sommato ce l’ha fatta – appiccò il fuoco al tempio di Artemide in Efeso». Erostrato era figura ricorrente in quei decenni: nel 1974 Umberto Eco scrisse una esilarante intervista impossibile, di cui fu interprete in radio Paolo Poli. Berto, fingendo i modi dell’elogio, sferza un’epoca troppo contenta di sé, in cui la ricerca di una pretesa felicità scatenerà prevedibilmente ogni sorta di nevrosi.