Ad Ava Mendoza piace che nella musica ci siano anche delle parole: trentanovenne, chitarrista il cui talento ha attirato in maniera crescente l’attenzione, Ava Mendoza ama anche scrivere dei testi, e li interpreta per esempio nelle sue esibizioni in solo (come si è potuto apprezzare in quella a Bergamo Jazz dello scorso anno). Pur avendo origini boliviane, ha fortemente interiorizzato la cultura afroamericana del blues, che assieme al gospel sente come la radice profonda di gran parte della musica degli Stati Uniti: musicalmente ha istintivamente abbracciato musiche percorse dal blues come quella di Jimi Hendrix e il punk rock, ma da figlia di un immigrato latino, fin dall’infanzia attraverso l’esperienza del padre ha toccato con mano il razzismo, e ha quindi anche capito il blues in maniera vissuta, entrando in sintonia con la sua forza di mezzo di comunicazione di contenuti e stati d’animo critici. Con queste premesse, cosa di meglio di una band in cui la parola è assicurata da Abiodun Oyewole, classe 1948, membro fondatore nel ’68 di The Last Poets, gruppo nato in omaggio a Malcolm X e cruciale come apristrada dell’hip hop?

ESIBITASI nel 2021 al newyorkese Vision Festival, Third Landing, la formazione di Ava Mendoza con Abiodun Oyewole, ha avuto adesso a Sons d’hiver, al Théatre Antoine Vitez di Ivry-sur-Seine, la meritata opportunità di un debutto europeo e un vivo successo. Abiodun Oyewole esordisce parlando di un’America “terrorista”: e tanto per non lasciare dubbi, alla fine gratifica poi l’America anche della qualifica di “bitch”. Ma il suo modo di proporsi non è affatto truce: semmai può essere corrosivo, e lo è nella voce roca, ma la sua è una presenza bonaria, affabile, con un che di paterno e della saggezza di uno che ne ha viste tante; e anzi dagli anni sessanta si porta dietro non solo una visione contestativa, ma anche intatto uno slancio di impulsi positivi, che oggi possono suonare persino un po’ ingenui: introducendo un brano, ad un certo punto dice per esempio che “abbiamo bisogno di stare insieme” e che “la musica è un linguaggio universale”, e che bisogna “condividere l’amore”. Il suo spoken word può essere più serrato o più pacato, può lasciare il posto al vero e proprio rap, ma Abiodun Oyewole si concede anche, su un delizioso ritmo di samba, un momento da crooner: in ogni caso ha stile, carattere, e tiene agganciati. Non nuovo ad essere circondato da musicisti dell’area dell’avanguardia (si pensi al suo album solista 25 Years, del ’95, con Bill Laswell, Henry Threadgill, Brandon Ross fra gli altri), Oyewole è visibilmente compiaciuto della musica di Third Landing. Musica – si premura di precisare molto onestamente Ava Mendoza – che non è stata composta da lei individualmente ma è stata creata collettivamente: ma di certo – lo si vede da come sta sul palco – è molto attenta allo sviluppo della musica, è una leader che indirizza in maniera precisa, pensata, senza per questo minimamente inibire la spontaneità dell’insieme, e ogni brano ha musicalmente una sua fisionomia.

LA FORMAZIONE del resto è di prim’ordine: Devin Brahja Waldman al sax alto, Alexis Marcelo al piano e alle tastiere, Luke Stewart al basso elettrico, Ches Smith alla batteria. Con loro Ava Mendoza fa quello che non è facile fare: stare attorno ad una voce dandole respiro, espandendo la sua suggestione, senza ridursi ad una funzione di banale accompagnamento e mantenendo alla musica una sua autonomia. A questo Ava Mendoza contribuisce con una ricca tavolozza di colori, che sono fatti di blues-rock, rock, free, effetti elettronici, in un ampio ventaglio di situazioni, acide o sognanti, incalzanti o rarefatte. E al fondo c’è un grande senso del suono, sia nel modo stilisticamente assai articolato di suonare la chitarra di Ava Mendoza, sia nell’insieme della musica di Third Landing di cui è la regista: senso del suono che ha sviluppato con la sua acuta sensibilità al blues, con la pratica di un vasto assortimento di altri generi – jazz d’avanguardia, rock innovativo, no wave, noise, eccetera – e non ultimo in anni di rigoroso studio della musica elettronica al Mills College di Oakland, in California. A questo Ava Mendoza contribuisce con una ricca tavolozza di colori, che sono fatti di blues-rock, rock, free, effetti elettronici, in un ampio ventaglio di situazioni

IN UN’ALTRA SERATA, al Théatre Jean Vilar di Vitry-sur-Seine, si è esibito il pianista tedesco Joachim Kuhn col suo Trio Reunion con il musicista marocchino Majid Bekkas, vocalist e suonatore di guembri, strumento tipico della musica gnaoua, e con Ramon Lopez alla batteria. Figura storica del jazz europeo, Kuhn ha raccontato di avere suonato a Parigi per la prima volta nel fatidico 1968, e ha annunciato che, passati cinquantacinque anni, voleva che fosse Parigi, dove si è poi esibito tante volte e a cui è molto legato, la città del suo ultimo concerto: appunto quello che stava tenendo a Sons d’hiver. Ma visto anche l’entusiasmo e il piacere nel fare musica con i suoi due compagni che Kuhn, alternandosi al piano e al piano elettrico, ha mostrato nel suo set, c’è sinceramente da augurarsi che non sia davvero così.

Il programma di Sons d’hiver continua fino al 18 febbraio: da segnalare il 17 Truth Is A Four-Letter Word, una ambiziosa opera di Fred Frith su libretto di Julie Gilbert, con cantanti classici, video e una ampia compagine comprendente fra gli altri Zeena Parkins all’arpa, Ikue Mori all’elettronica, Camille Email alle percussioni.