L’assemblea nazionale della lista Tsipras di sabato 19 si presenta come uno snodo importante per il futuro dell’avventura iniziata alcuni mesi fa. Dopo il buon risultato elettorale, la speranza sottintesa con la scelta di essere presenti alla scadenza elettorale europea, e cioè il fatto di cimentarsi con la ricostruzione di una soggettività politica antiliberista adeguata ai tempi contemporanei, necessariamente si deve misurare con la possibilità che essa si possa processualmente tramutare in una possibilità concreta.
Questo è il vero punto della discussione di sabato prossimo, che, ovviamente, non può essere risolutiva, ma ha il compito di muovere passi coerenti in quella direzione.
Davanti a noi, stanno almeno tre questioni di fondo, quelle che possono sul serio decidere che siamo in cammino verso un’ipotesi che dovrebbe essere capace di radicalità nei contenuti, maggioritaria nel suo sguardo, innovativa nelle sue forme.
La prima attiene al fatto – che mi pare largamente condiviso- che ci muoviamo avendo come base un’impostazione politica e culturale di alternatività al neoliberismo e di autonomia nei confronti dell’esperienza cui, nelle sue varie forme, è approdata la sinistra europea. A maggior ragione nel nostro paese, dove la mutazione genetica che il renzismo sta producendo nel Pd lo sta collocando più nell’alveo del progressismo di stampo anglosassone che in quello della socialdemocrazia «classica» di tipo europeo. Questo punto di consapevolezza e di condivisione rende anche possibile che si evitino precipitazioni o fughe in avanti come sarebbe quella di produrre da subito una sorta di «costituente» di un nuovo soggetto politico o di pensare che ravvicinate scadenze elettorali diventano centrali per la costruzione e il consolidamento del nostro progetto. Non è solo una questione nominalistica, ma la formulazione avanzata dai giovani di ACT di pensare alla lista Tsipras come a uno «spazio politico aperto» mi pare quella più adeguata a ciò che questa nostra esperienza può concretamente rappresentare in questa fase.
La seconda, che peraltro ha molto a che fare con il ragionamento appena sviluppato, è che si tratta, nella prossima fase, nell’autunno che si aprirà davanti a noi, di mettere in campo alcune significative «campagne di massa» che possano rendere riconoscibile la nostra identità e possibile l’allargamento ad un arco di forze più vasto di quello che finora si sono raccolte attorno alla lista. Penso ad iniziative da declinare sul piano europeo, nazionale e territoriale, in modo specifico ma coordinato, a partire dai punti che lo scontro politico e sociale ci propone come fondamentali. Non c’è dubbio che, da questo punto di vista, dovremo occuparci del contrasto ai trattati iperliberisti TTIP e TISA, come, allo stesso modo, non potremo non dar corso ad una forte iniziativa che muova dall’opposizione ai propositi del governo di ridurre gli spazi della democrazia, ben rappresentati dalla «controriforma» del Senato, da un’ipotesi di legge elettorale incostituzionale e dal ridimensionamento del referendum e delle leggi di iniziativa popolare.
Sapendo, peraltro, che non ci si può limitare ad un approccio difensivo, ma che la difesa della democrazia comporta la sua espansione, a partire dal rafforzamento degli istituti di democrazia diretta e partecipativa, in direzione esattamente contraria a quanto intende fare il governo in tema di leggi di iniziativa popolare e referendum.
Ancora, sul terreno delle scelte più ravvicinate in materia di politica economica e sociale, diventa ineludibile promuovere un’iniziativa forte per prospettare un’opzione alternativa alle logiche dell’austerità espansiva, a partire dall’eliminazione del vincolo del pareggio di bilancio in Costituzione, andando oltre i limiti insiti nei referendum proposti sulla legge attuativa dell’art. 81, e dalla battaglia contro il Jobs act, che ripropone un inaccettabile approccio di precarizzazione generalizzata dei rapporti di lavoro, e, più in generale, per rimettere al centro il lavoro e i suoi diritti.
Il terzo punto dirimente riguarda le forme di questo spazio politico aperto. Proprio nella misura in cui si assume il dato che stiamo costruendo un processo e che occorre averne cura, che ci evolveremo sulla base di quanto sapremo realmente produrre nella società e nella politica, allora diventa evidente che l’aspetto dell’innovazione delle forme di una soggettività politica in costruzione, è questione strategica. In questo senso, ciò che sta di fronte a noi si condensa, intanto, nell’aver chiaro che nella società si muovono soggetti e movimenti che esprimono una politicità diffusa e affermano la propria autonomia, dal sindacato al mondo dell’associazionismo, dai movimenti per i beni comuni a quelli che si fondano sulla differenza di genere.
Siamo di fronte ad un dato strutturale di politicizzazione dei soggetti sociali, che deve produrre rispetto e capacità di relazione paritaria da parte di chi lavora sul piano della rappresentanza politica, e che dunque richiede una mutazione anche a quest’ultima, nel senso di assumere fino in fondo la necessità della socializzazione della politica. Il che significa, da una parte, rispetto ai ragionamenti svolti prima sulle «campagne di massa», pensare a forme di ibridazione, a coalizioni sociali e politiche che ne sono protagoniste e, dall’altra, ad un impegno diretto, in particolare nei territori, da parte della politica nella costruzione della società e del rafforzamento dei legami sociali.
Del resto, quest’approccio mi pare uno degli spunti più interessanti dell’esperienza di Syriza in Grecia, che ha affrontato la questione della crisi della rappresentanza non solo proponendo contenuti e linea politica più adeguata per aggredire le scelte di politica economica e sociale, ma soprattutto insediandosi nella società, promuovendo esperienze di welfare territoriale, mutualismo, autorganizzazione sociale.
Infine, fa parte essenziale di questo ragionamento anche la necessità di compiere un salto di qualità nei nostri meccanismi di democrazia interna e di decisione. Abbiamo alle spalle la stagione della campagna elettorale che si è retta su modalità di gestione interna, largamente necessitate, ma scarsamente legittimate democraticamente; siamo entrati in una fase, contrassegnata, per fortuna, dallo sviluppo e dal radicamento dei comitati territoriali, che non rende più accettabile la prosecuzione di tale modalità e tantomeno una sua riproposizione sotto nuove forme.

È maturo, contemporaneamente, il fatto di darsi un minimo di strutturazione organizzativa, anche provvisoria, sul piano nazionale, capace di interfacciarsi con i comitati territoriali e l’avanzare progressivamente – assumendolo anche come terreno di ricerca- lungo percorsi innovativi, come quello rappresentato da modalità decisionali costruite con il metodo del consenso.
Queste mi sembrano più rispondenti alle forme della politica che vogliono cimentarsi con le trasformazioni intervenute, anche dal punto di vista delle soggettività, e che invocano maggiore orizzontalità, inclusività e apertura. E che, certamente non possono essere rinchiuse nel modello novecentesco magari in formato ridotto, dei partiti di massa, sostanzialmente verticalizzato e gerarchizzato.
Come si può ben vedere, non mancano certo le questioni, e anche di grande rilievo, su cui riflettere. Non pensando che l’Assemblea nazionale sia in grado di dare tutte le risposte. Ma, intanto, iniziando a porsi le domande giuste e a fare passi in avanti per affrontarle.