Da qualche anno Firenze è diventata un luogo simbolico per eccellenza. Il fiore all’occhiello del mito postdemocratico dell’uomo-solo-al-comando. Il simbolo di una modernizzazione neoliberista che riduce la città a un outlet-village di vetrine e grandi firme, scenari eleganti per location lussuose di eventi spettacolari. Domina la sottocultura che riduce tutto a modello commerciale, donne e uomini a risorse umane, i beni artistici a «una miniera di soldi», piazze e ponti a set teatrali da affittare al miglior offerente. Chi continua ad abitarvi si ritrova ad essere turista di se stesso, spettatore marginale di una Disneyland che occulta le disuguaglianze, la precarietà, i diritti negati, le nuove povertà che avanzano ma sono cancellate nella rappresentazione glamour che tanto piace al sindaco Renzi (ormai ex, ndr). Una città degli affari, in mano ai soliti centri di potere cui il centrosinistra in questi anni si è associato serenamente.

Però nella città che è luogo simbolico della crisi, è anche la possibilità dell’alternativa. Firenze è anche altro. È stata la città delle bandiere alle finestre e del social forum, del referendum sull’acqua e i beni comuni. È la città che difende il territorio dallo strapotere delle rendita e dalle grandi opere devastanti. Che ha a cuore l’inclusione e la rottura delle moderne enclosures che separano i cittadini di serie A da tutti gli altri, confinati nelle periferie della città e dell’esistenza. Una città che pratica conflitti ed elabora proposte, altro sapere e relazioni alternative. Vive. Ed è capace di autorappresentarsi anche nelle istituzioni come ha fatto negli ultimi dieci anni con la lista di cittadinanza UnaltracittàUnaltromondo, poi perUnaltracittà.

Oggi viviamo una sorta di emergenza democratica. Il neoliberismo si è definitivamente separato dalla democrazia o l’ha ridotta alla sua misura commerciale: competizione nell’offerta elettorale per conquistare acquirenti dei marchi esposti sullo scaffale televisivo. Va da sé che gli eletti sono sempre già designati fra i più zelanti servitori e il parlamento è il luogo dell’ubbidienza all’imprenditore-leader dell’azienda-partito.

Allora occorre partire dalle vertenze che sono aperte in città per trovare il filo rosso che le attraversa, che pratica immagina e disegna un’altra idea di città. Abitata, amata, vissuta. Aperta agli attraversamenti e capace di accoglienza. Aperta al turismo che vuole incontrare e conoscere la città, la sua cultura e la sua vita – non solo le vetrine uguali in tutto il mondo, sbirciate un attimo dai bus nei blitz mordi e fuggi. Trovare il filo di un’altra città e di un’altra democrazia, che liberi spazi e li apra alle relazioni sociali, all’autorganizzazione, alla creatività giovanile. Che unisca e parli a tutte/i coloro che soffrono questa crisi economica e di cultura costituzionale.
Insomma occorre avanzare una proposta che parli alla città democratica che ha difeso i beni comuni e l’ambiente, la laicità delle istituzioni, la pace, il diritto alla salute, i valori della Costituzione. Che ha animato i conflitti sociali per la difesa della dignità del lavoro, per il diritto alla casa, il reddito e la redistribuzione della ricchezza.

Una proposta che faccia del patrimonio artistico uno strumento per essere cittadine e cittadini consapevoli, orgogliosi della propria storia e di una cultura che sia elaborazione continua, apertura e confronto – non qualcosa di imbalsamato su cui vivere di rendita, mentre si sostituiscono le librerie con i fast-food, le biblioteche con le sfilate di moda, cinema e teatri con hard rock cafè.

La lista di cittadinanza Una città in Comune che sta nascendo a Firenze in questi giorni ha le sue radici nella città che ha praticato vertenze e conflitti, elaborato proposte e sapere alternativo. È una proposta che vuole unire ed essere all’altezza di questo sconvolgimento della vita materiale e del tessuto democratico, che è della città, dell’Italia e dell’Europa.
Non si parte da zero. Ci si mette in cammino.