Winckelmann, Goethe, la stagione classico-romantica, sono senza dubbio i nodi epocali della cultura letteraria in Germania tra Sette e Ottocento. È a partire da quei nodi che si costruisce l’itinerario storico-culturale proposto da Maria Fancelli in L’ispirazione goethiana (Morlacchi Editore, pp. 523, euro 25,00), ricchissima raccolta di studi che arrivano a toccare anche il Novecento e la contemporaneità muovendosi tra ambiti diversi, dalla letteratura alla filosofia, dalle arti visive alla musica.
Se il punto focale è sicuramente Goethe con la sua impronta, l’argomentazione dei vari saggi si sviluppa a cerchi concentrici, dove i fili di continuo si riannodano e si richiamano. Sta proprio qui un primo, forte elemento di interesse, nella sintassi costruttiva che porta allo scoperto una linea di ricerca rigorosissima e allo stesso tempo fluida, capace di ridefinirsi costantemente nel corso del tempo. Certo è vero, come scrivono i curatori Hermann Dorowin e Rita Svandrlik nell’ampia e attentissima introduzione, che «la riflessione sui grandi testi è, per Maria Fancelli, un processo mai compiuto», ma questo rileggere e ripensare entro orizzonti più larghi con un andamento della scrittura che si potrebbe dire rizomatico, non è per nulla scontato nel lavoro di ricerca.
Un esempio in tal senso possono essere proprio due testi che a distanza di tempo studiano il rapporto di Goethe con Firenze e il Rinascimento. Nello studio più recente, sui viaggi in Italia di «Goethe padre e figlio», l’ampliarsi dello sguardo non vuol dire soltanto trovare mediante nuove verifiche la conferma di precedenti congetture, ma soprattutto, attribuendo un ruolo di rilievo al «cantiere Cellini» – come viene definito il complesso del lavoro goethiano attorno all’artista fiorentino –, significa leggere il tardivo aprirsi dello scrittore tedesco alla cultura del Cinquecento in Toscana entro una prospettiva di più ampio respiro, più specificamente storico-artistica e politica.
Firenze, dove Maria Fancelli aveva studiato germanistica con il maestro Vittorio Santoli e dove, dopo lunghi soggiorni in terra tedesca, ritorna per ricoprire la cattedra di Letteratura tedesca, è un altro passaggio imprescindibile in questo volume. Nella navigazione condotta da angolazioni diverse attraverso le «interferenze» culturali fra Italia e Germania, fra «natura e civiltà del Nord e natura e civiltà del Mediterraneo», interferenze che avevano attirato la curiosità della studiosa già dalla prima lontana lettura del Tonio Kröger di Thomas Mann, e che arrivano fino alla realizzazione di un Corso di studi Italo-tedeschi tra Firenze e Bonn, Firenze infatti è una sorta di punto cospicuo. E non solo quando è una quinta precisa, esattamente definita come nelle Notti fiorentine di Heinrich Heine, dove la città è quella «tardo-rinascimentale e michelangiolesca, notturna e marmorea» e in un passo espunto dallo stesso autore è la scena realisticamente sinistra della congiura dei Pazzi; o come in Fiorenza, il dramma storico in cui Thomas Mann vede contrapposti Lorenzo il Magnifico e Girolamo Savonarola nella Villa di Careggi. Firenze − ma si potrebbe dire l’‘ispirazione toscana’ − è luogo di grande suggestione che in realtà entra trasversalmente in tutto il volume.
Il contesto fiorentino ha evidentemente uno spazio concreto nella vicenda del ritrovamento di un manoscritto di J. J. Winckelmann, nella ricostruzione ad ampio raggio della storia delle prime istituzioni culturali, dei circoli letterari e artistici del Novecento e in particolare nella messa a fuoco di grandi figure quali Rainer Maria Rilke, Thomas Mann e György Lukács, che hanno contribuito a una ridefinizione dell’idea di Rinascimento. Ma l’‘ispirazione toscana’ per la toscana Fancelli torna anche in una forma meno esplicita, più sotterranea e straniante con l’«ispirazione goethiana» del cinema dei fratelli Taviani. Nell’analisi di due film − Il prato, che richiama a distanza il Werther, e Le affinità elettive −, particolarmente significativa è l’attenzione rivolta, accanto alle corrispondenze latenti e alle citazioni dirette dai testi letterari, soprattutto alle relazioni indirette e al procedimento, come scrive Maria Fancelli, di «dislocazione geografica» che sostituisce a orizzonti tedeschi paesaggi toscani.
Non può stupire questa incursione in un paesaggio còlto con l’occhio della cinepresa, perché quella dello sguardo è una dimensione senza dubbio privilegiata nei percorsi del libro. Percorsi che si aprono, attorno al fondamentale snodo tematico di Winckelmann, proprio sul primato dell’occhio e sull’osservazione; leggono le idee di Goethe sull’architettura e il suo interesse per lo spazio − dalle impressioni sulla cattedrale di Strasburgo al confronto con l’opera del Palladio − in primo luogo nei termini di una emozione visiva e in una prospettiva autonoma, non subordinata o strumentale all’attività letteraria; o, ancora, offrono per la «Passeggiata pasquale» del Faust all’interno della «relazione storia-natura-paesaggio» una raffinatissima interpretazione come «pezzo vedutistico».
Ma tracce della funzione che in tutti questi testi ha l’‘atto del vedere’ si potrebbero ritrovare, pur isolate e marginali ma forse non meno indicative, anche nell’attenzione allo sguardo verso il cielo di Santa Cecilia nella pala d’altare di Raffaello o nell’interrogarsi sugli occhi chiusi con cui Maria de Vilalobos nel sarcofago di Lisbona guarda il libro che tiene in mano. Ugualmente non privo di rilievo è che lo studio della Mahagonny di Brecht e Weill stia fortemente sotto il segno delle suggestioni visive e dei valori cromatici. Quanto sia importante il punto di vista nel lavoro di ricerca lo afferma del resto in modo esplicito la stessa Fancelli, che riflette su come spesso sia necessario scegliere «una zona di osservazione» apparentemente distante per poter arrivare al «tema centrale», in altre parole come possa essere fondamentale usare un approccio che sposta lo sguardo dal campo lungo per stringere sulla messa fuoco del particolare.
Si accennava all’apertura alla contemporaneità di questi contributi: essa non è soltanto segnata dai saggi dedicati ai compagni di strada e ad autori come Elfriede Jelinek. Perché Maria Fancelli, grande studiosa della Klassik e di Winckelmann (di cui ha recentemente curato una preziosissima edizione delle lettere), è sicuramente interessata proprio al dialogo tra passato e presente, alla trasversalità che fa trasparire i fili che si riannodano. Non è un caso, infatti, che in uno dei saggi sull’archeologo prussiano, le testimonianze tratte dall’epistolario siano messe a confronto e interfoliate con due testi narrativi di Hartmut Lange (2000) e Hans Joachim Schädlich (2007), che in prospettive tra loro diverse tornano sulla vicenda esistenziale di Winckelmann proponendo interrogativi alla letteratura scientifica. E allo stesso modo non è un caso che a essere messo in rilievo sia appunto il dialogo con il nostro tempo, sul quale si intesse il racconto di Lange e dentro il quale Il prato dei Taviani ha collocato il Werther come proiezione di un malaise contemporaneo.
Per nulla secondario è lo spazio che nel volume ha la linguistica: al di là della segnalazione di singoli «lessemi», come può essere quello antico alto tedesco del Canto di Ildebrando che unisce i due termini ’padre’ e ’figlio’, o della densa nota sulle differenze tra ‘Baukunst’ e ‘Architektur’, esemplare è la raffinatissima lettura di Gottfried Benn anche sul terreno delle strutture formali e delle scelte semantiche; così come di grande interesse sono lo studio sul lessico dell’amicizia nell’epistolario winckelmanniano o le riflessioni sulla contrapposizione tra l’idea di ‘Nationalliteratur’ e la goethiana parola d’autore ‘Weltliteratur’.
Non secondario e soprattutto non consueto è l’intero percorso che seguono i saggi indagando sulle analogie e le contaminazioni che attraversano stagioni e dibattiti letterari o singoli testimoni di un’epoca, ma con un’attenzione sempre rivolta anche allo scarto, alle tensioni e alle possibili contraddizioni. In queste pagine non è raro trovare il termine «cantiere», che Maria Fancelli usa ad esempio per la «gran fabbrica» del Faust o per quella delle opere italiane di Goethe. L’idea di grande laboratorio, di cantiere appunto, mi sembra possa definire anche lo stesso volume, che nella sua architettura compositiva, nella natura dei tanti e molteplici temi affrontati è molto più e molto altro che non un insieme, per quanto vasto e articolato, di saggi. È una storia della letteratura e della cultura europea, alla quale proprio la fitta rete di riferimenti dà una forma decisamente nuova.