L’Islanda come malattia e luogo «che atterrisce» per la sua vitalità incontrollabile e capricciosa. Che è terra di vulcani affamati, con bocche pronte a eruttare fuoco e lava, invertendo la marcia delle «magnifiche sorti e progressive» della tecnologia umana (basti ricordare il risveglio dell’Eyjafjallajokull quando la sua cenere bloccò tutti i cieli d’Europa, gettando nel panico milioni di viaggiatori). L’Islanda, dunque, come mistero geologico che dalle sue viscere lasciò zampillare miti e leggende per secoli e, soprattutto, affascinò scrittori, poeti, artisti, esploratori, botanici, naufraghi.

A NARRARLA in quarantasette racconti è Il libro degli vulcani d’Islanda. Storie di uomini, fuoco e caducità (Iperborea, pp. 382, euro 19,50) dell’esordiente Leonardo Piccione, che dagli studi statistici ha deciso di passare alle rocce inquiete di quell’isola, a cui dedica anche buona parte del suo tempo (nato nel 1987, oggi vive fra Corato e Húsavík). L’autore sarà ospite a Milano del festival I Boreali, dove spiegherà al suo pubblico in cosa consiste questo magnetico «virus islandese» che colpisce l’immaginazione.

COSTRUITO come fosse un atlante scientifico dei vulcani – con tanto di schede e illustrazioni – il libro in realtà ha una struttura a scatola cinese, che prevede continue «estasi», uscite da sé. Storia dopo storia, il vulcano protagonista si fa personaggio e insieme sfondo per dare respiro ad altre narrazioni, inanellando saghe famigliari e riscoprendo mondi perduti.
Si va da quel Snaefellsjokull (significa «ghiacciaio della montagna di neve») che nel 1993 si fece scenario dell’attesa degli Ufo forse perché, come scrive Piccione, la sua cima emanava «una luce ipnotica», all’Eldey – residuo di una terra scomparsa – dove vivevano le alche, protopinguini destinati all’estinzione sia per loro abitudini (deponevano un solo uovo all’anno), sia per le mattanze insistite organizzate da pescatori e cacciatori.

FRA LE STORIE più interessanti scovate e ottimamente raccontate, c’è quella dell’inglese William Morris. Pittore e scrittore appassionato di erbari medievali, propulsore del movimento internazionale Arts and Crafts, pensò bene che la fuga dalla civiltà e dalle delusioni d’amore – sua moglie Jane Burden gli aveva preferito l’amico Dante Gabriele Rossetti)- fosse possibile in direzione dell’Islanda. Era il 1871 quando sbarcò per il suo pellegrinaggio – che proseguì a cavallo – alla ricerca di tracce di antiche tradizioni e saghe. Le raccolse con perizia e poi le tradusse con l’amico Magnússon.
Da non dimenticare, infine, l’aura che circonda Herdubried, uno dei tuya più famosi del mondo: fu qui che si asserragliò il pastore Sigurjónsson per salvare le sue pecore, qui lo ritrovò lo scrittore Gunnar Gunnarsson per il suo libro Il pastore d’Islanda, qui lo perse Disney che non riuscì a realizzare un film d’animazione su di lui.