Un giorno di occupazione e lo Stato Islamico ha già testato il suo barbaro pugno di ferro sulla comunità di al-Qaryatain, nella provincia di Homs: 230 persone sono state rapite perché accusate di «collaborazione con il regime di Assad». Sessanta di loro, cristiani siriani, sono stati portati via mentre si trovavano in una chiesa della città, presa dagli uomini del califfo dopo duri scontri durati due giorni con l’esercito governativo. Una sconfitta cocente per Damasco vista la posizione strategica della comunità, sulla strada di collegamento tra le montagne di Qalamoun al confine con il Libano e la centrale Palmira.

Così viene colpita una città da sempre considerata simbolo di coesistenza nel ricco panorama etnico e religioso siriano: erano 18mila i residenti prima della guerra civile, di cui 2mila siriaci cattolici e cristiani ortodossi. Secondo fonti locali, oggi i cristiani ancora residenti sarebbero solo 300. Un’aggressione che sta spingendo i cristiani di molti villaggi vicini, Sadad, Houranin, Wahmin, alla fuga verso la capitale provinciale, Homs, ancora in mano a Damasco.

Subito si sono sollevate le organizzazioni per i diritti umani, a partire da Amnesty International che ha chiesto l’immediato rilascio dei civili disarmati fatti prigionieri. Conferme arrivano dal patriarcato siriaco ortodosso di Damasco: «È molto difficile raggiungere i residenti in questo momento – ha detto il vescovo Matta al-Khoury – ma sappiamo che quando l’Isis è entrato in città, ha costretto alcune persone agli arresti domiciliari e ne ha usate altre come scudi umani».

L’aggressione contro minoranze etniche e religiose è un marchio di fabbrica dello Stato Islamico, che nel mirino ha chiunque non segua la folle interpretazione dell’Islam del califfo: kurdi, cristiani, yazidi, sciiti, turkmeni, assiri, ma soprattutto sunniti che – nella mente di al-Baghdadi – non rispettano alla lettera i dogmi imposti dai jihadisti.

Le conseguenze sono concrete: chiese e moschee distrutte, religiosi e civili rapiti, omicidi, stupri, attacchi contro monasteri e conventi. Una realtà ben diversa da quella vissuta prima del 2011: molte comunità cristiane hanno garantito il proprio sostegno al governo del presidente Assad, considerato difensore dei diritti della minoranza religiosa. Rappresentante del partito Baath, fazione laica fondata sul nazionalismo arabo, Bashar – come suo padre Hafez e come il presidente iracheno Saddam Hussein – ha usato la libertà di fede per evitare settarismi interni potenzialmente pericolosi per la tenuta dello Stato. La legislazione siriana ha sempre previsto al suo interno politiche di protezione delle minoranze e ha represso ogni forma di estremismo islamico, a favore del nazionalismo siriano e panarabo.

Tale strategia ha garantito ai cristiani siriani di godere di buone posizioni economiche e anche politiche, tanto da fare della comunità una delle principali sostenitrici di Assad. Lo si è visto recentemente: molti cattolici, siriaci e assiri cristiani hanno preso le armi e si sono uniti all’esercito governativo, a partire dalla città di Aleppo.

E lo si è sentito, nelle dichiarazioni congiunte dei leader cristiani siriani, rilasciate in un viaggio a Washington di un anno e mezzo fa: rappresentanti del patriarcato greco ortodosso di Antiochia, del sinodo evangelico nazionale di Siria e Libano, della chiesa presbiteriana e di quella siriana ortodossa hanno fatto appello agli Stati uniti perché interrompessero le relazioni con Arabia saudita, Qatar e Turchia, accusati di finanziare e sostenere l’arrivo di miliziani islamisti nel paese.